COACHING & COUNSELING, IDENTITA’ E DIFFERENZE (Cap. 5)

COACHING & COUNSELING, IDENTITA’ E DIFFERENZE.

A cura di: Domenico Nigro. Direttore didattico e trainer della Scuola IN Counseling. Consulente aziendale. Life e Business Coach.

CAP. 5: IL PIANO D’AZIONE

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Un buon piano d’azione non è mai pensato come un semplice programma, ma come la traduzione pratica e coerente, di una vera e propria strategia.

Cos’è un programma? Cos’è una strategia? Cosa distingue l’uno dall’altra?

Un programma è la determinazione a priori di una sequenza di azioni in vista dell’esecuzione di un compito e/o del conseguimento di un obiettivo. Esso è efficace in presenza di specifiche e stabili condizioni preordinate. Qualora queste dovessero variare, il programma va, quasi sempre, a “farsi benedire” (pensiamo a tutte le variabili – ponderabili o meno- presenti nella vita di noi tutti).

La strategia si differenzia dal programma sebbene comporti elementi programmatici. Come il programma, viene stabilita in vista di un obiettivo ma, a differenza del programma, prefigura scenari d’azione e ne sceglie uno, in funzione di ciò che conosce dei soggetti che lo metteranno in opera, delle loro potenzialità, degli ostacoli che potranno incontrare e del contesto in cui questi agiranno. L’approccio strategico, inoltre, considera la possibilità del cambiamento in corso d’opera, in funzione dell’incidenza di elementi imprevisti ed imponderabili.

Agire strategicamente, quindi, vuol dire cercare, senza sosta, di raccogliere informazioni e di verificarle perché, in relazione agli esiti di tale raccolta e verifica, riorganizzeremo e modificheremo incessantemente il nostro piano.

L’impianto strategico di un “piano d’azione” ne configura una struttura programmatica aperta, capace cioè di cogliere, accogliere e gestire al meglio tutti quegli elementi di novità e/o cambiamento che dovessero presentarsi in corso d’opera.

Un piano d’azione viene progettato ed eseguito in funzione dello svolgimento di un compito e/o del conseguimento di un obiettivo.

Compito del coach è quello di aiutare i propri clienti nella realizzazione dei loro obiettivi.

Anche il coach, quindi, ha un proprio piano d’azione, caratterizzato da un impianto strategico e da una struttura programmatica aperta.

L’impianto strategico viene coltivato e verificato nella successione di incontri/colloqui coach-cliente.

Gli elementi programmatici di tale impianto strategico sono:

  1. il “contratto” di coaching
  2. la progettazione e l’aggiornamento dei Goal Setting di ciascun cliente
  3. la progettazione e l’elaborazione dei Piani d’Azione per ciascun cliente
  4. il monitoraggio degli andamenti dei Piani d’Azione dei clienti ed il loro aggiornamento associato a quello dei relativi Goal Setting.

Il contratto di coaching deve precisare:

– l’obiettivo/goal del cliente,

– il numero di sedute di coaching ed il tempo a ciascuna dedicato,

– l’unità di tempo entro la quale verranno eseguite,

– il/i luoghi in cui verranno svolte, l’onorario del coach e le modalità di pagamento.

Cos’è un “piano d’azione”?

“È il progetto di ciò che ci si ripromette di fare in vista del raggiungimento di un preordinato obiettivo”.

Ogni persona dotata di buon senso e buona volontà progetta, organizza ed esegue specifici piani d’azione ogni qualvolta si prefigge di conseguire un qualsivoglia risultato. Trascurare o dare poco peso a tale dinamica toglie coerenza al nostro operato, lo rende casuale ed inefficace, ci fa perdere di vista i nostri obiettivi e la loro importanza, debilita la nostra motivazione, annichilisce il senso delle nostre azioni.

Quali caratteristiche di base deve avere un piano d’azione per essere efficace?

  1. Avere un impianto strategico
  2. Avere un focus ed un obiettivo specifico
  3. Essere organizzato sulla base delle potenzialità di chi lo metterà in atto
  4. Avere un incedere che sia in armonia con il fine.

 Un buon piano d’azione non è mai pensato come un semplice programma, ma come la traduzione pratica, coerente, di una vera e propria strategia

 La qualità del piano d’azione è funzione del focus di chi lo esegue e del suo avere un obiettivo specifico.

Il focus è la principale ragione-motivazione che sostiene il piano d’azione (vedi Cap. 3); quanto più il focus sarà chiaro ed importante, tanto più il piano d’azione sarà efficacemente portato avanti.

Quanto più l’obiettivo sarà circostanziato e dettagliato, tanto maggiori saranno le possibilità della buona riuscita del piano d’azione stesso.

L’efficacia di un piano d’azione si fonda innanzitutto sulla valorizzazione delle potenzialità di chi lo dovrà eseguire.

Nel progettare ed organizzare un piano d’azione è fondamentale analizzare e prevedere il miglior utilizzo di tutte le potenzialità di chi lo eseguirà. Si tratta di considerare ciò che più lo gratifica, le azioni che maggiormente lo soddisfano, ed intorno a questi elementi pianificare lo sviluppo del piano.

Un buon piano d’azione prevede mezzi che rispecchiano il fine.

Il fine di un piano d’azione deve esprimersi nelle azioni che lo strutturano; queste devono essere in grado di rappresentarlo e prefigurarlo. I mezzi non possono mai contraddire i fini, pena il loro sostituirsi ai fini stessi (sviluppo di atteggiamenti nevrotici in cui non conta più perché si fa una cosa ed il farla diventa manifestazione compulsiva, coazione a ripetere, fine a se stessa e non più indirizzata al conseguimento di un obiettivo).

Se, invece, il mezzo non contraddice il fine, ma è armonico ad esso, il suo stesso essere agito può diventare in sé e per sé motivo di soddisfazione e di autorealizzazione, a prescindere dal fatto che l’obiettivo venga conseguito.

Tale affermazione può facilmente essere esemplificata ricorrendo alla metafora sportiva.

Cosa permette ad un atleta agonista di vivere emozioni di autorealizzazione anche quando non centra il proprio obiettivo di vincere la competizione in cui gareggia?

La consapevolezza di aver espresso il massimo delle proprie potenzialità, di aver fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità per vincere la gara, di non aver mai, in nessun momento smesso di provarci con lealtà e determinazione.

Se a fine gara potrà convenire su di un tale “bilancio”, non potrà che essere soddisfatto di sé e della propria prestazione.

Nello sport, come nel lavoro e nella vita, a volte si vince, a volte si perde.

Non si può sempre vincere e, soprattutto, quando si agisce con impegno e con consapevolezza, non si può sempre perdere.

Si può, quindi, accettare serenamente e anche “godere” di una sconfitta.

Quello che è molto più difficile da accettare è il rammarico di non aver provato a “vincere”, il rammarico di non aver fatto tutto ciò che potevamo fare per raggiungere i nostri obiettivi.

Il coach aiuta il cliente nell’elaborazione del suo piano d’azione, soprattutto supervisionandone la coerenza fra desideri, potenzialità, obiettivi e azioni.

Il coach aiuta il cliente a mettere a fuoco i suoi desideri, le sue potenzialità e a individuare e definire coerentemente i suoi obiettivi.

Compito del coach è quello di richiamare l’attenzione del cliente sulla coerenza intrinseca delle sue azioni (utilizzando opportune forme di comunicazione, in primis, la tecnica delle domande, vedi Domenico Nigro, “L’Abc delle competenze relazionali”, Pendragon-Fortepiano, Bologna, 2012, Parte Prima, Cap. 1).

Il coach lavora, fondamentalmente, sostenendo le azioni dei propri clienti e motivandoli ad agire.

Il coach sollecita il cliente ad immaginare l’azione in ogni particolare.

L’immaginazione dell’azione ha un duplice scopo: 1) progettarla secondo criteri di efficienza e di efficacia; 2) preparare ed allenare il cliente ad agire.

Il coaching ha come filosofia l’ “agire”, sia quello del coach (che interviene proattivamente sui modi di fare dei propri clienti), sia quello dei clienti stessi. Ciò che lo caratterizza è il suo essere organizzato e preordinato.

Il coach allena il senso di autoefficacia dei propri clienti.

Il senso di autoefficacia corrisponde alla convinzione, circa le proprie capacità, di organizzare ed eseguire la sequenza di azioni necessarie a conseguire i propri obiettivi.

Questa convinzione è il frutto combinato e complesso di emozioni, pensieri ed esperienze.

Le convinzioni di autoefficacia influenzano (quale che sia il contesto in cui l’individuo agisce) la scelta del corso di azioni da intraprendere, la quantità e la qualità di impegno investita, la capacità di affrontare avversità, stress ed emozioni derivanti dall’esecuzione del proprio piano d’azione.

Tanto maggiore è il senso d’autoefficacia, tanto più l’esecuzione del piano d’azione avrà successo e gli obiettivi saranno conseguiti.

L’autoefficacia riguarda la capacità di riuscire ad eseguire ciò che ci si è ripromessi di fare, utilizzando al meglio i mezzi a propria disposizione in qualsiasi circostanza ci si ritrovi; si distingue quindi dall’autostima, che riguarda giudizi di valore generale su di sé in quanto persona.

Avere una buona autostima è utile, ma non sufficiente a garantire il successo delle proprie prestazioni; per quello sono necessarie sempre buone dosi di impegno, disciplina e capacità. Per mobilitare e mantenere l’impegno necessario a riuscire, ci vuole un saldo senso di autoefficacia.

L’autoefficacia è ciò che si riesce a fare con i mezzi a propria disposizione, in una varietà di circostanze diverse; il senso d’autoefficacia riguarda la convinzione di riuscire a farlo; ogni compito ed ogni “impresa” compiuta con successo rafforza il senso d’autoefficacia, relativo all’esecuzione di quel compito e di quella “impresa”.

Un livello d’autoefficacia non adeguato all’esecuzione di un compito, provoca una forte sensazione di stress e un forte senso di impotenza, che (mal gestito) può sfociare in una diminuzione della propria autostima. Il senso di autoefficacia non è meccanicamente correlato all’autostima, l’uno con l’altra tuttavia si influenzano reciprocamente: l’autostima cresce col crescere del senso di autoefficacia e viceversa.

Il coaching sviluppa il senso d’autoefficacia delle persone, innanzitutto, per il suo essere centrato sul conseguimento di obiettivi (una qualsiasi progressione di obiettivi raggiunti rafforza il senso di autoefficacia).

Il  coach valorizza le esperienze positive passate e presenti del cliente per dargli fiducia.

Il coach non generalizza mai: da un lato, associa gli insuccessi dei propri clienti a situazioni specifiche dalle quali trarre insegnamenti, dall’altro, ne celebra i successi, con convinzione, partecipazione e gioia.

Il coach racconta ai propri clienti, in modo mirato ed equilibrato, storie di successo.

Tutti quanti noi abbiamo bisogno di modelli di successo cui ispirarci.

Spesso però li guardiamo con gli occhi del nostro senso di inadeguatezza, da cui deriva la tendenza a sminuirne il valore.

I nostri stessi successi sono troppo spesso vissuti o con modestia, o con troppa enfasi.

Questo perché guardiamo al successo principalmente nei suoi aspetti di risultato, senza dare il giusto riconoscimento al successo nella sua dimensione di processo, ovvero tutto ciò che concretamente è stato fatto (con il suo carico di fatica e di difficoltà affrontate e superate) per ottenerlo.

Spostando l’attenzione sul processo, si aumentano le possibilità di imparare dai modelli eccellenti e dunque di migliorare il proprio senso di autoefficacia.

Il coach non convince il cliente ad agire, ma lo richiama – sfidandolo – alla coerenza fra desideri, azioni, potenzialità e obiettivi.

Compito del coach è fare in modo che il piano d’azione sia adeguatamente sfidante, rispetto alle capacità, e ispirato, rispetto alle potenzialità del cliente.

Attraverso modalità di comunicazione efficaci, sollecita nel cliente l’autoconvinzione di potercela fare.

Le persone possono aumentare il proprio senso di autoefficacia anche attraverso la persuasione di terzi.

La persuasione non è certo uno strumento privilegiato del coaching, ma può essere utile se impostata sulla restituzione di feedback adeguati.

Se le valutazioni positive su cui si basa la persuasione sono realistiche, se la relazione è fondata su lealtà e fiducia, la persuasione può diventare uno strumento potentissimo.

Se una relazione celebra la persona solo per “captatio benevolentiae”, i feedback saranno seducenti, ma falsi.

La conseguenza sarà quella di alimentare un senso di autoefficacia superficiale e irrealistico.

Il coach deve far sì che il piano d’azione elaborato insieme al cliente combini nel miglior modo possibile il livello di autoefficacia, le difficoltà del compito, la corrispondenza alle potenzialità.

Il coach stimola il cliente ad individuare ed utilizzare una mappa delle alleanze possibili come parte delle sue azioni.

Nella rete di relazioni che ogni cliente ha, è possibile individuare soggetti in grado di aiutarlo nel suo piano d’azione. Si tratta di arrivare a definire una piccola rete di solidarietà, nella quale ciascun partecipante potrà ricevere e dare sostegno.

LE PRINCIPALI REMORE DI UN PIANO D’AZIONE.

Sottovalutazione, Pessimismo, Rapporto passivo con l’ambiente.

Sottovalutiamo la fatica e le capacità necessarie per svolgere un determinato compito. Così facendo ne svalutiamo l’importanza e le capacità che mettiamo in campo per realizzarlo. La stessa sottovalutazione la impieghiamo nel guardare il successo altrui (di cui ci abbagliano i risultati, ma non gli sforzi che li hanno determinati).

Così come sottovalutiamo i successi, sopravvalutiamo gli insuccessi, assimilandoli a dei veri e propri fallimenti. Da qui trae origine, principalmente, quella vena di pessimismo con la quale valutiamo le possibilità di realizzazione dei nostri desideri.

L’insuccesso o fallimento, come ogni stato emotivo, non può esistere fuori da un ambito socio-relazionale.

Se non lo rielaboriamo e contestualizziamo, il fallimento si disancora dalla situazione concreta che lo ha prodotto e si irradia verso ogni attività futura che con esso abbia un qualsivoglia collegamento.

Sviluppiamo così un modo di pensare che pervade di pessimismo tutti i nostri propositi e ci induce alla rinuncia (che agiamo a fare se tanto falliremo?!).

Tale atteggiamento diventa il nostro principale ostacolo verso l’autorealizzazione.

Possiamo difenderci da una simile dinamica imparando a neutralizzare, individuandole, le specifiche cause contingenti e temporanee dei nostri insuccessi.

Questo più facilmente ci porterà ad assumere atteggiamenti positivi e responsabili nei confronti dei contesti in cui ci ritroveremo, di volta in volta, ad operare, scongiurando cosi l’insana tendenza ad instaurare un rapporto passivo con l’ambiente e con il nostro conviverci.

L’ambiente è tutto ciò che ci circonda, ma nel parteciparvi, ne diventiamo parte, arrivando sempre (anche nostro malgrado) a qualche forma di identificazione con esso.

In nessun caso, nei nostri piani d’azione, possiamo prescindere dall’ambiente in cui agiamo.

In funzione del modo in cui sceglieremo di relazionarci con esso, otterremo i nostri effetti.

La ricerca attiva e creativa della varietà delle nostre espressioni possibili all’interno del contesto dato, ci permetterà di avere col contesto un rapporto costruttivo, capace cioè di arricchirlo, rendendolo più favorevole.

Se ciò che sappiamo fare nei confronti dell’ambiente è unicamente pretendere e prendere, il risultato che otterremo sarà quello di impoverirlo fino a quando non potrà più darci niente.

Solo nutrendolo del nostro apporto, potremo mantenerlo vivo e vitale, in condizione quindi di sostenerci.

Cosa ci impedisce di aprire gli occhi sull’ovvia considerazione che l’ambiente sarà tanto più ricco quante più “cose” sapremo dargli?

Daremo tanto di più quanto più sapremo agire creativamente!

La ricerca di alleati è uno dei fulcri fondamentali per l’arricchimento della nostra creatività e per la realizzazione dei nostri desideri.

Ancora una volta, ci dovremo basare sulle potenzialità (le nostre e quelle dei soggetti con cui siamo in relazione): quali di queste possiamo attivare per rendere migliore il contesto in cui operiamo? Come ed entro quanto tempo possiamo operare a tal fine?

Superare una concezione passiva del rapporto con l’ambiente produce non solo uno straordinario aumento delle possibilità d’attuazione dei nostri piani, ma ci permette di contribuire alla costruzione di contesti nuovi, più ricchi, più stimolanti, più accoglienti, rassicuranti e creativogenici.

FINE CAP. 5

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