Il Counseling. Cap.1 – Manuale di Istruzione & Formazione.

Il Counseling.

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1.1 Il Counseling

Il counseling è una relazione d’aiuto professionale fondata sulle capacità e abilità personali del counselor di accompagnare i propri clienti in percorsi di sviluppo di consapevolezza tali da metterli in condizione di meglio affrontare le difficoltà che stanno vivendo.

Il tipo di aiuto che il counseling offre si costruisce nella relazione counselor-cliente, grazie ad una particolare architettura di attività condotte dal counselor.

Tali attività sono apprese, da tutti noi counselor, in forza di una specifica esperienza formativa, centrata su “pratiche”:

  • Di accoglienza;
  • Di ascolto;
  • Di osservazione non giudicante
  • Di comunicazione non violenta, empatica compassionevole ed efficace;
  • Di presenza attenta, consapevole e interattiva (cioè la “pratica” dell’“esserci” nella relazione, dello starci dentro, in contatto empatico col cliente; diversamente da quanto fanno altri professionisti della relazione d’aiuto, che considerano il proprio coinvolgimento umano, nella relazione con i propri pazienti, un’interferenza, un fattore di disordine, di mancanza di controllo e di verificabilità scientifica).

Grazie a tali “pratiche” noi counselor riusciamo a incontrare l’altro, suscitando in lui sentimenti di fiducia, riconoscimento, rassicurazione, conforto; grazie a tali pratiche noi counselor accompagniamo i nostri clienti in veri e propri percorsi di sviluppo di consapevolezza personale, che li metteranno in condizione di meglio affrontare i propri problemi e, magari, risolverli.

Le attività che caratterizzano e individuano il counseling sono dunque “pratiche” la cui efficacia dipende dalla capacità di chi le esercita; anche per questo sono comunemente chiamate abilità di counseling.

 Il counseling è la relazione interpersonale-professionale in cui noi counselor agiamo per attivare e sostenere gli sviluppi di consapevolezza personale che servono ai nostri clienti per meglio affrontare i propri problemi.

Per aiutarci a comprendere cos’è la consapevolezza, la analizziamo in riferimento a noi stessi.

La consapevolezza è lo stato di adeguato contatto con ciò che pensiamo (giudizi, immaginazioni, riflessioni, analisi, ragionamenti), sentiamo (emozioni, sentimenti, sensazioni), facciamo (atteggiamenti comportamentali, automatismi nevrotici, comportamenti e azioni); un contatto che ci permette di riconoscere le interazioni tra il nostro Sentire, Pensare e Agire, per farcene qualcosa di buono, cioè muoverci verso pensieri, sentimenti e comportamenti funzionalmente in grado di portarci a meglio soddisfare i nostri bisogni, facendoci stare meglio e in un più sano equilibrio con il nostro ambiente.

I processi di consapevolezza che si attivano e sviluppano in una relazione di counseling sono funzione diretta di specifiche dinamiche relazionali, che si sviluppano grazie alla messa in atto di specifiche e particolari abilità e competenze personali/relazionali, sulle quali è centrata la Formazione di Noi Counselor: Ascolto, Accoglienza, Osservazione Non Giudicante, Comunicazione non violenta, empatica, compassionevole ed efficace, Presenza attiva e consapevole.

L’uso appropriato di tale specifico insieme di particolari capacità/abilità personali/relazionali caratterizza il saper far counseling, l’arte cioè di aiutare il prossimo a meglio affrontare le proprie difficoltà esistenziali; all’acquisizione di tali capacità/abilità è rivolta la Formazione IN Counseling.

Per questa ragione la Formazione IN Counseling è un’esperienza assolutamente indicata per chiunque sia, in qualunque modo, animato dal desiderio, dalla volontà, dal bisogno di aiutare gli altri, e/o se stesso, o più semplicemente sia animato dalla necessità di affinare le proprie capacità di farlo nelle situazioni di vita personale-professionale in cui questo sta già avvenendo.

Per noi uomini, l’aiuto è una dinamica relazionale in cui il bisogno di ricevere aiuto incontra quello di darlo. Il bisogno d’aiuto (di riceverlo e di darlo) accompagna l’esistenza umana in ogni sua declinazione storica, geografica, sociale (per vivere, abbiamo Tutti bisogno d’aiuto).

Oggi, in molte parti del mondo, il Counseling è una tra le possibilità che l’uomo ha per soddisfare il proprio bisogno d’aiuto, sia quello di darlo, sia quello di riceverlo.

Con la nostra Formazione IN Counseling, noi counselor:

  • Facciamo esperienza di quanto il nostro benessere dipenda dalla soddisfazione dei nostri bisogni;
  • Sperimentiamo quanto la soddisfazione di ogni bisogno sia un processo, funzione del positivo fluire della consapevolezza che lo accompagna;
  • Impariamo quanto il sano fluire dei nostri processi di consapevolezza dipendano dal grado di buona, perché congrua e funzionale, integrazione tra quanto “sentiamo”, “pensiamo”, “agiamo” (alias facciamo);
  • Apprendiamo quanto dalla qualità di tale integrazione dipendano gli stati di benessere/malessere esistenziale di chi ci chiede aiuto e di noi stessi.

A fare la Formazione IN Counseling, si finisce col fare propria l’intuizione di maggior valore del Counseling: il riconoscimento dell’importanza del “Sentire” nella vita delle persone (in altre parole, della capacità di percepire emozioni, sentimenti, sensazioni).

Quando le nostre emozioni, i nostri sentimenti, le nostre sensazioni sono riconosciute e usate consapevolmente come input direzionali del nostro pensare e del nostro agire, pensiamo in modo diverso, più lucido, siamo più capaci di comprendere quello che ci sta capitando e accadendo intorno a noi e, conseguentemente, agiamo meglio.

I nostri comportamenti, adeguatamente orientati da quello che proviamo, si esprimono in azioni che più facilmente soddisfano i nostri bisogni, migliorano le nostre relazioni interpersonali, apportano qualità e benessere alla nostra e all’altrui esistenza.

  • Come e cosa “sentiamo”?
  • Come questo si collega a, influenza ed è influenzato da, ciò che pensiamo?
  • Come emozioni, sentimenti, sensazioni e pensieri si collegano alle nostre azioni e ai nostri comportamenti, determinandoli e/o da questi facendosi influenzare?
  • Come “funzioniamo”, quindi, rispetto ai modi in cui integriamo, teniamo insieme e/o separiamo ciò che sentiamo, ciò che pensiamo e ciò che facciamo?

La Formazione IN Counseling è una via per scoprirlo, innanzitutto di noi stessi!

Dalla nostra Formazione IN Counseling e dal nostro fare counseling traiamo il senso di quanto la qualità dell’integrazione, del nostro “Sentire”, “Pensare” e “Agire”, sia una nostra responsabilità.

Parliamo, qui, di “responsabilità”, riferendoci al suo valore etimologico:

– “responsabilità” = respònsa (latino risposta) + abilità = “abilità di risposta”, alias capacità di dare risposte funzionali ed efficaci a quanto siamo chiamati a fare.

Noi counselor sappiamo quanto “consapevolezza” e “responsabilità” siano un binomio inscindibile; non si dà l’una senza l’altra: assumendoci la responsabilità di attivare le nostre facoltà di ascolto, sospensione di giudizio, senso critico, volontà, coraggio, presenza, promuoviamo l’attivazione della nostra consapevolezza, beneficiandone degli effetti; quanto più miglioriamo i nostri stati di consapevolezza, tanto più aumentiamo il valore della nostra responsabilità.

Sull’assunzione di responsabilità necessarie per migliorare i propri stati di consapevolezza coinvolgiamo i nostri clienti, facendo counseling con loro.

Per riuscirci, ci aiuta considerare la consapevolezza come il miglior stato di integrazione possibile del “Sentire”, del “Pensare” e dell’ “Agire”; uno stato visto come funzione diretta del nostro essere “attivamente presenti” (cioè adeguatamente e funzionalmente in contatto con quanto stiamo sentendo, pensando ed agendo) nelle circostanze della nostra esistenza che lo richiedono, per soddisfare un nostro bisogno e/o per aiutare al meglio chi, da solo, non riesce a soddisfare i propri e, per questo, ci chiede aiuto.

Ciò che caratterizza il Counseling è, dunque, sia “cosa” noi counselor facciamo, sia “come” lo facciamo.

Il counseling è un’attività pratica; riconoscendo il valore pragmatico del counseling, diventa ovvio e consequenziale caratterizzarne i percorsi formativi e ogni tipo di definizione su registri pratico-esperienziali.

La Formazione IN Counseling, infatti, è, innanzitutto, una palestra, in cui ci si esercita e ci si allena a meglio integrare ciò che pensiamo, ciò che facciamo, ciò che sentiamo, intendendo per ciò che sentiamo le nostre percezioni sensoriali e i loro collegamenti con i nostri stati emotivi/sentimentali.

La Formazione IN Counseling è una palestra in cui:

  1. Impariamo a meglio riconoscere ciò che sentiamo, pensiamo e facciamo, e
  2. Apprendiamo come meglio gestirlo, per stare meglio e per essere poi in grado di sostenere i nostri clienti a fare altrettanto, aiutandoli ad applicare loro stessi quelle pratiche di cui siamo diventati esperti: ascolto, accoglienza, osservazione non giudicante, comunicazione non violenta, empatica, compassionevole, efficace, presenza attiva e consapevole.

La bellezza della Formazione IN Counseling è, quindi, quella di essere un percorso di formazione professionale, che è soprattutto una vera e propria, magnifica, esperienza di crescita e di arricchimento personale, che qualifica l’esistenza di chi la vive, migliorandone il modo di stare al mondo.

La Formazione IN Counseling ci abitua a integrare adeguatamente pensieri, sentimenti e comportamenti, rendendoci capaci di aiutare i nostri clienti a fare altrettanto con i loro pensieri, con i loro comportamenti, con i loro sentimenti; questo li aiuterà a sviluppare i loro stati di consapevolezza personale, che li sosterranno nell’attivazione e nello sviluppo di pensieri e sentimenti che li orienteranno verso comportamenti più utili al loro benessere e al miglioramento della loro esistenza.

Insistere sulle caratteristiche di attività pratica del Counseling (fino a immaginare di ribattezzarlo PRAGMACOUNSELING) ci aiuta a definirlo e a meglio rispondere a domande quali:

  1. Cos’è il counseling?
  2. Cosa lo caratterizza?
  3. Cosa lo rende specifico?
  4. Cosa lo differenzia da altre tipologie di relazione d’aiuto?

Cos’è dunque il Counseling? (le risposte alle domande b, c, d, procederanno da questa):

“Il counseling è una relazione d’aiuto professionale praticata da uno specifico professionista, denominato counselor, in forza di uno specifico e particolare modo di stare con se stesso, in relazione con i propri clienti, gestendone opportunamente le dinamiche di comunicazione, con l’intento preordinato di sostenere, in loro, sviluppi di consapevolezza tali da migliorare significativamente le loro capacità/possibilità di affrontare le situazioni problematiche che stanno vivendo e rispetto alle quali chiedono aiuto”.

Da tale visione del counseling deriva che il “particolare modo di stare con se stessi, in relazione con i propri clienti”, che il counselor adotta nelle proprie relazioni di counseling, non può che essere il più importante obiettivo formativo della Formazione IN Counseling e rappresentarne il tratto distintivo.

Si diventa counselor apprendendo questo “particolare modo di stare con se stessi (in ascolto, accogliendo quanto ascoltiamo, di noi stessi e degli altri, osservando senza giudicare), in relazione con gli altri (con una presenza attiva e consapevole, comunicando in modo non violento, ecc.)”; questo ci permetterà di fare counseling.

Questo ci permette un’affermazione tanto banale quanto importante: Per fare counseling bisogna saperlo fare!

Saper fare counseling è funzione diretta del saper gestire, utilizzandola al meglio, una specifica architettura di atti/competenze relazionali, che potremmo definire “caratterizzanti” il fare counseling:

  • Accogliere,
  • Ascoltare (in modalità propriocettiva ed empatica),
  • Comunicare in modo non violento, compassionevole ed efficace,
  • Osservare senza giudicare,
  • Avere una Presenza attenta, consapevole e interattiva col proprio cliente (cioè, “repetita iuvant”, “esserci” nella relazione, stare dentro la relazione, in contatto empatico col cliente; diversamente da quanto fanno altri professionisti della relazione d’aiuto, che considerano il proprio coinvolgimento umano, nella relazione con i propri pazienti, un’interferenza, un fattore di disordine, di mancanza di controllo e di verificabilità scientifica),
  • Incontrare l’altro, suscitando in lui sentimenti di fiducia, riconoscimento, rassicurazione, conforto,
  • Accompagnare gli altri in percorsi di sviluppo di consapevolezza personale che li metteranno in condizione di meglio affrontare i loro problemi e, magari, risolverli.

Questi sono gli atti/competenze relazionali che caratterizzano il fare counseling professionalmente!

Riconoscere del counseling il suo valore squisitamente pragmatico non vuol dire non considerare l’importanza, per chi lo eserciti professionalmente, di uno specifico background culturale in grado di contenere una buona conoscenza della natura umana, delle sue declinazioni storiche, antropologiche, sociologiche e psicologiche.

Il “saper far counseling” è certamente sostenuto da una certa conoscenza dell’uomo, in particolare (come già affermato nell’Introduzione del presente manuale):

  • Della natura storico-sociale della sua esistenza
  • Delle sue influenze ambientali
  • Dei suoi processi di crescita e sviluppo
  • Dei suoi cicli di vita personale e sociale
  • Delle sue dinamiche psichiche, socio-culturali e di comunicazione interpersonale
  • Delle sue caratteristiche legate all’appartenenza di genere.

Di questa “certa conoscenza dell’uomo”, il presente manuale offre un quadro teorico di riferimento, utile a chiunque voglia imparare a fare counseling o già lo stia facendo.

1.2 Lo stato delle cose riguardanti il Counseling.

In Italia, il Counseling è una professione non regolamentata, NON inquadrata cioè in alcun sistema ordinistico, di “Collegi” e “Albi” professionali.

Quindi, formalmente/giuridicamente, in Italia, per fare counseling non è richiesta alcuna obbligazione che non rientri nei più generali canoni del rispetto delle leggi vigenti in materia di attività professionali (artistiche, artigianali e intellettuali) non espressamente regolamentate.

Con la Legge 14 gennaio 2013, n. 4, senza istituirne l’obbligo, IL LEGISLATORE RICONOSCE IL DIRITTO, NON IL DOVERE, a chiunque eserciti una professione non regolamentata, quindi anche a chi fa counseling professionalmente, di autoregolarsi, per il tramite di forme di associazionismo privato.

La possibilità di tale autoregolazione, che, ovviamente, mira a tutelare sia chi vuole esercitare professionalmente il counseling, sia chi ne potrebbe ricevere i servizi, non esclude comunque la possibilità di un esercizio della professione di counselor a chi a tale autoregolazione non intende partecipare.

Stringi stringi, quindi, da un punto di vista pratico, nessuno potrebbe impedire di fare counseling a chi lo sa fare, sa trovarsi clienti e lo fa senza infrangere alcuna legge e senza produrre alcun danno, dimostrabile.

Non potremmo, allora, considerare il “saper fare counseling” l’unico vero, sostanziale, requisito per poterlo fare e il non saperlo fare condizione sufficiente a impedire a chiunque di farlo?

Chi non sa fare counseling, se non è uno stupido e/o un malfattore, perché dovrebbe mettersi a farlo?

Se ci prova, difficilmente riesce a trovare clienti e, laddove dovesse riuscirci, li perderebbe immediatamente, essendo incapace di soddisfare i loro bisogni d’aiuto.

Banalmente, se riconoscessimo che il “SAPER FAR COUNSELING” è la condizione più importante per poterlo fare, non potremmo far altro che rivolgere la nostra attenzione alle seguenti domande:

  1. Cos’è il “saper far counseling”?
  2. A cosa serve?
  3. Cosa lo caratterizza?
  4. Cosa lo rende specifico?
  5. Come si apprende?
  6. Quali risultati produce?
  7. Come se ne attesta e certifica la competenza?

A queste domande, in questo manuale, daremo risposta.

Cos’è il “saper far counseling”?

Saper far counseling è saper accogliere chi chiede aiuto, saperlo ascoltare empaticamente, saperlo confrontare criticamente, gentilmente; senza alcun pregiudizio.

Saper far counseling è saper comunicare in modo gentile, non violento ed efficace.

Saper far counseling è saper osservare senza giudicare.

Saper far counseling è saper cogliere, accogliere e stare con quello che il cliente porta con sé e di sé nella relazione: i suoi stati d’animo e le relative declinazioni emotive, mentali e comportamentali, soprattutto quelle con cui è più difficile fare i conti.

Saper far counseling è saper riconoscere le relazioni esistenti tra quanto il cliente pensa, sente e agisce e l’intero quadro problematico rispetto al quale lo stesso cliente chiede aiuto.

Saper far counseling vuol dire, quindi, saper dar valore a ciò che il cliente pensa, sente e fa.

Saper far counseling è saper aiutare i propri clienti ad accorgersi di quanto, cosa e come stiano pensando, sentendo e agendo.

Saper far counseling è saperli aiutare a scoprire come tutto ciò stia insieme e come interagisca con le difficoltà che stanno vivendo.

Saper far counseling è saper avere una presenza attenta, consapevole e interattiva, con chi chiede aiuto.

Saper far counseling corrisponde cioè al saper stare in relazione, in contatto empatico con le persone cui si offre il proprio aiuto professionale; vuol dire sapersi coinvolgere nella relazione con i propri clienti, senza farsene travolgere, mantenendo la propria autonomia e indipendenza.

Saper far counseling vuol dire saper incontrare l’altro, aiutandolo ad attivare i propri sentimenti di fiducia, riconoscimento, rassicurazione, conforto.

Saper far counseling è saper accompagnare i propri clienti in percorsi di sviluppo di consapevolezza personale tali da metterli in condizione di meglio affrontare i loro problemi e, magari, risolverli.

Infine, almeno da un punto di vista professionale, a nulla servirebbe saper far counseling senza saper gestire le operazioni di marketing personale funzionali al procacciamento del proprio lavoro.

A cosa serve “saper far counseling”?

Saper far counseling serve ad aiutare, e ad aiutarsi, a meglio gestire le situazione di crisi, piccole o grandi, dell’esistenza.

Serve ad aiutare, in modo sano, maturo ed efficace, chiunque si ritrovi ad affrontare una qualche, piccola o grande, difficoltà del vivere; così come serve ad aiutare se stessi, in analoghe circostanze.

Ogni volta che ci ritroviamo ad affrontare una situazione di crisi personale, piccola o grande, nel campo degli affetti e delle relazioni professionali; ogni volta che ci ritroviamo a dover gestire una difficile situazione di cambiamento, personale o professionale, di qualsiasi genere; ogni volta che dobbiamo prendere una decisione e non sappiamo bene quale; saper far counseling ci aiuta ad affrontare positivamente ciascuna di queste situazioni, così come serve ad aiutare chi, ritrovandosi in una di queste situazioni, si rivolgesse a noi per farsi aiutare.

Da cosa è caratterizzato il “saper far counseling”?

Il saper far counseling è caratterizzato, innanzitutto, dalle qualità umane di chi fa proprio questo sapere.

Umiltà, coraggio, forza d’animo, fiducia nelle potenzialità umane, quelle buone, viste come leve capaci di produrre buone realizzazioni di sé, benessere, felicità.

Le potenzialità umane, per noi counselor, sono bisogni che chiedono d’essere soddisfatti; tra questi individuiamo, innanzitutto, quelli di: crescita, sviluppo, maturazione, affermazione e realizzazione personale, creatività, intelligenza, consapevolezza, responsabilità, debolezza e forza, l’intera gamma delle emozioni e dei sentimenti umani, la capacità di pensare e di agire e quella di sentire, nel senso di “propriocezione”, percezione sensoriale di quanto si muove in noi, in collegamento con gli accadimenti in cui siamo coinvolti, con cui siamo in contatto.

La potenzialità umana la cui valorizzazione più caratterizza il saper far counseling è il Sentire, vale a dire percepire ciò di cui siamo fatti, ciò che ci anima, ciò che ha vita e si muove in noi.

La capacità di “Sentire” è ciò che caratterizza il “saper far counseling”.

Saper far counseling vuol dire saper Sentire e farsene qualcosa di buono, per sé e per gli altri, valorizzandolo nelle proprie relazioni.

Il saper far counseling è caratterizzato dalla fiducia riposta in tutte le potenzialità umane e dalla capacità di valorizzarle, cioè, per noi counselor, saper far counseling vuol dire saper stimolare positivamente i sensi, i pensieri e i sentimenti dei nostri clienti, affinché loro stessi possano meglio entrare in contatto con le loro potenzialità, riconoscerle come bisogni e attivarsi per soddisfarli.

“Viene prima il Sentire” è il motto che caratterizza il nostro saper far counseling.

Il “Sentire” deriva da una particolarissima capacità d’ascolto.

Il senso comune considera il saper ascoltare come funzione della capacità di prestare attenzione e saper capire quello che gli altri dicono.

Un senso più acuto del “saper ascoltare” aggiunge, alla capacità di capire quello che gli altri dicono, quella di saperne cogliere il contenuto di sentimenti, bisogni, desideri, volontà, norme e valori culturali.

Nel senso comune tali capacità di ascolto sono considerate, soprattutto, una funzione cognitiva:

  • Per il tramite delle nostre funzioni uditive riceviamo segnali acustici formalizzati/codificati in parole e frasi, che interpretiamo, assegnando a queste precisi significati;
  • Con la vista ricerchiamo la “segnaletica” non verbale della comunicazione altrui, riconoscendone gli elementi e assegnandovi specifici significati;
  • Con l’immaginazione ci identifichiamo con gli stati mentali e sentimentali degli altri e, così, empatizziamo con loro, arrivando noi stessi a riconoscere ciò che provano, sentendolo riecheggiare in noi stessi.

Soprattutto, quindi, interpretiamo, immaginiamo e ci auto-condizioniamo per empatizzare, per arrivare cioè a provare quelle emozioni e quei sentimenti che noi stessi pensiamo stiano provando gli altri e, dai nostri relativi pensieri e stati d’animo, ci facciamo guidare nella gestione delle nostre relazioni, così possiamo dire che sappiamo ascoltare.

Certo, molte volte, ci azzecchiamo. Molte volte no!

Può capitarci d’essere preda di dinamiche psicologiche tutte nostre, che ci portano a “prendere fischi per fiaschi”, a immaginare, interpretare, dedurre pensieri e sentimenti che, più che riguardare gli altri, hanno a che fare con noi.

La Gestalt, come scuola di psicologia, chiama interruzioni di contatto[1] tali dinamiche psicologiche, perché ci impediscono di stare in relazione con l’altro, in modo presente, consapevole e responsabile, capace cioè di farci riconoscere cosa stia realisticamente accadendo in noi e nell’altro, come tutto ciò interagisca e cosa e come fare per meglio gestirlo, producendo più sane e funzionali interazioni tra noi stessi e gli altri, così da produrre un miglioramento dei nostri e degli altrui stati di consapevolezza.

L’interruzione di contatto è un rischio tanto più alto quanto più il nostro “ascolto” è identificato, sostanzialmente, con il “voler capire quello che gli altri dicono”.

Tanto più vogliamo “capire”, tanto meno “ascoltiamo”.

Il “capire” è una funzione mentale.

L’ascolto del counseling è una funzione sensoriale, di propriocezione, la percezione di ciò che si muove e agita in noi, nel nostro stare in relazione/contatto con l’altro.

Una percezione sensoriale, quindi, che possiamo stimolare in vario modo, ma che, soprattutto, attiviamo prestando attenzione a ciò che sentiamo in noi stessi, mettendoci ad ascoltarlo.

Questo è l’ascolto del counseling, è un mettersi in ascolto di ciò che risuona in noi, quando accogliamo ciò che l’altro ci offre, con i suoi racconti, con l’intera complessità della sua comunicazione, verbale e non.

Mettendoci in ascolto (propriocettivamente), prestando attenzione a, e in contatto con, quanto l’altro ci sta comunicando, sentiamo l’effetto che questo produce in noi.

Ascoltarlo aumenta qualitativamente il funzionamento dei nostri neuroni a specchio, quelli che riflettono gli stati d’animo altrui, migliorando la nostra empatia.

Ciò che “sentiamo” muove ciò che “pensiamo” e ci orienta nel nostro fare counseling, che sarebbe diverso se ci muovessimo partendo da quello che pensiamo.

L’ascolto, nel counseling, è un processo che parte dall’attenzione che rivolgiamo a ciò che “lo stare in relazione, in contatto, con l’altro e con ciò che ci comunica” ci fa sentire.

È un ascolto che richiede quattro sostegni:

  1. l’attenzione cognitiva rivolta all’altro e alla sua comunicazione,
  2. l’accoglienza di cosa, e come, ci viene comunicato,
  3. il riconoscimento propriocettivo e l’accoglienza dell’effetto che ci fa,
  4. la sospensione del giudizio.

Questi quattro sostegni sono tutti importanti, ma il terzo di più, perché, a differenza degli altri, non è “solo” leva di consapevolezza, è anche il “fulcro” in cui si incuneano tutte le leve della nostra consapevolezza.

È la rampa su cui l’attenzione cognitiva si poggia, per essere rielaborata e sviluppata.

È il solvente che rende chiaro e lucido il pensare, riflettere, immaginare, progettare.

È l’energia positiva che rende vive e particolarmente efficaci le nostre funzioni cognitive.

È la leva delle nostre intuizioni.

È ciò che caratterizza il nostro fare counseling.

È una competenza che non si studia sui libri, si forma e sviluppa allenandola, con l’aiuto di maestri esperti.

Cosa rende specifico il “saper far counseling”?

Ciò che rende specifico il “saper far counseling” è la capacità di stare con ciò che ascoltiamo, accogliendolo, per restituirlo con i nostri feedback.

Quella dell’ascolto è la funzione universalmente riconosciuta del counseling.

Ciò che vogliamo precisare è “cosa viene ascoltato e come?”

Ascoltiamo “come ci fa stare” ciò che accogliamo.

Ascoltiamo “come stiamo” con ciò che accogliamo.

Per questo non vi è ascolto senza accoglienza.

Fare counseling vuol dire innanzitutto accogliere chi viene a chiedere aiuto, per aiutarlo ad attivare le proprie risorse, interiori ed esteriori, come chiave di volta per meglio affrontare le proprie difficoltà.

L’accoglienza di cui parliamo non è certo solo quella del ricevere i propri clienti, con modi gentili e accomodanti, che certo adottiamo!

L’accoglienza di cui qui si parla è soprattutto quella del saper prendere ciò che l’altro porta di sé, tenerlo con noi, facendogli posto dentro di noi, per assaporarne gli effetti.

A “ciò che l’altro porta di sé”, e a tutto ciò che ci comunica, facciamo spazio dentro di noi, accogliendolo in noi per poterlo ascoltare, prestando attenzione a ciò che ci fa sentire.

È un’attenzione/ascolto di tipo propriocettivo.

Cosa “porta” l’altro di sé?

Porta i propri pensieri, i propri sentimenti, le proprie emozioni, le proprie azioni.

Ascoltiamo come ci sentiamo nell’accoglierne i modi delicati o irruenti, pacifici o conflittuali, timorosi o spavaldi, diffidenti o comunque essi siano.

Ascoltiamo cosa sentiamo, e come, accogliendo l’universo di valori e riferimenti culturali/educativi, che i nostri clienti esprimono, implicitamente o esplicitamente, nel raccontarci i loro problemi e le loro difficoltà.

Ascoltiamo tutto ciò per “metabolizzarlo”, per farne una nostra esperienza e condividerla con il nostro cliente, “restituendone”, esprimendoli, gli effetti di senso/sentimento che abbiamo riconosciuto.

Questa “restituzione” è ciò che chiamiamo “feedback”.

La gestione di questa tipologia di feedback è ciò che rende specifico il “saper far counseling”.

Riprenderemo più analiticamente, in altre parti del presente manuale, la specificità del dare un “feedback”, per noi counselor; intanto cominciamo a dire che feedback è un termine inglese la cui traduzione letterale è “retroazione”, cioè il ritorno degli effetti di una certa azione, di un certo comportamento, su chi quella stessa azione, quello stesso comportamento, ha messo in atto.

Gli “effetti di ritorno”, però, possono essere di vario tipo. Tanto vale precisarne i più ricorrenti.

Spesso il feedback è equiparato al giudizio.

Quante volte chiediamo un feedback su di un nostro operato, intendendo, aspettandoci e ricevendo, rispetto allo stesso, una qualche forma di valutazione?

  • “mi dai un feedback su come sono andato?”

Siamo soliti chiedere dopo una qualche nostra prestazione, carica di nostre aspettative.

Un feedback più evoluto è quello che dà un coach o un bravo maestro:

  • si concentra sulla descrizione della prestazione, valorizzandone gli aspetti positivi ed esortando a migliorarne le parti più deboli.

Ci sono poi i feedback che ripropongono gli accadimenti in esame, rielaborandone sintatticamente i contenuti, rispetto a come sono riportati da chi li ha vissuti, per rappresentarli da altri punti di vista ed arricchirne i possibili significati.

Esempio:

  • da: “mi ha dato uno schiaffo”
  • a: “quindi, mi stai dicendo che hai preso uno schiaffo?”.

Un altro tipo di feedback è l’interpretazione dei perché dell’operato in questione:

  • faccio una certa cosa, oppure mi accade, la racconto, chiedo un feedback, mi vengono spiegati i perché l’avrei fatta, o mi è accaduta.

Esempio:

  • “mi trovo sempre in mezzo ai guai”
  • “perché non sei capace di farti gli affari tuoi!”

Insomma, se non specifichiamo le caratteristiche dei nostri feedback, non possiamo sapere di cosa stiamo parlando.

I feedback, nel counseling, NON sono giudicanti, NON interpretano, NON prescrivono NÉ danno consigli.

Utilizzano certamente forme di comunicazione efficace (esempio la riformulazione), ma ciò che li caratterizza è l’essere espressione dell’esperienza di sentimento e di senso vissuta nell’identificarsi, nel calarsi immaginariamente negli accadimenti riportati, e nei loro protagonisti.

Le domande cui un counselor risponde, formulando i propri feedback, appartengono alla seguente tipologia:

  • Come mi fa sentire, cosa provo, a diventare il protagonista di ciò che il mio cliente mi sta raccontando? (stessa domanda, diventando a rotazione, uno dopo l’altro, ciascun partecipante degli accadimenti riportati)
  • Cosa mette in luce questo di me?
  • In che direzione mi suggerisce di muovermi?
  • A cosa posso dare più valore?
  • Come posso farlo?
  • Di quali bisogni, presenti nel campo, mi accorgo?
  • Chi li sta vivendo?
  • Quello che stanno facendo è funzionale alla loro soddisfazione?
  • Quali sentimenti aleggiano?
  • Quello che sto facendo (sono sempre identificato nel protagonista del racconto o in qualcun altro che dello stesso ha parte) a cosa mi serve?
  • Sono sicuro di non poter far meglio?
  • Cosa mi impedisce di farlo?
  • Come me lo impedisco?

Un’attenzione particolare, nella formulazione di questi feedback, è quella di non confondere il “sentire” con il “pensare”.

Un counselor, quando dice “sento”, si riferisce a qualcosa che ha a che fare con i propri sensi.

NON dice frasi tipo “sento che ce la farai”. Perché questo è un pensiero, è una previsione, è il camuffamento di una speranza (sperare è un sentimento!); un pensiero NON è un sentimento (pur avendone sempre quantità importanti collegate).

Ogni volta che scambiamo per sentimento un nostro pensiero, intorbidiamo i nostri e gli altrui stati di consapevolezza.

NON stiamo facendo, quindi, counseling, essendo il counseling una relazione d’aiuto centrata sul miglioramento degli stati di consapevolezza in gioco.

Un bravo counselor, ad esempio, se proprio dovesse considerare opportuno dire al proprio cliente ciò che comunemente si intende con “sento che ce la farai”, direbbe qualcosa del genere: “ho buoni motivi per pensare che tu ce la possa fare (e qui li elencherebbe) e, quindi, confido che tu ce la possa fare; se ti mettessi a farlo, credo te ne renderesti conto anche tu e potremmo così esserne tutti e due contenti. Non facendolo, non producendo alcun cambiamento, ovviamente, continuerai a stare nella situazione in cui sei.

Cosa ti trattiene dal passare all’azione? Di cosa hai ancora bisogno per farlo?”

Altro esempio:

  • A un cliente che dovesse dichiarare: “mi sento incapace”, un bravo counselor risponderebbe invitandolo a distinguere gli elementi di giudizio da quelli di sentimento, inscritti nella sua affermazione.
  • “mi sento incapace” è, ovviamente, l’espressione di un pensiero/giudizio su di sé.
  • Come ci si senta a pensarsi/giudicarsi incapaci non è esplicitato nell’affermazione “mi sento incapace”.
  • Abbiamo paura o proviamo rabbia?
  • Magari tutte e due le cose.
  • Siamo tristi? Ci sentiamo impotenti?

Confrontare il cliente su tali questioni è uno degli aspetti centrali del lavoro di consapevolezza, che noi counselor offriamo ai nostri clienti.

I feedback nel counseling sono la materia di maggior valore che il counselor scambia con i propri clienti.

Riceviamo, accogliamo e ascoltiamo quanto ci viene riportato.

Ci identifichiamo nelle sue parti, facendone una nostra esperienza, restituendone i contenuti di sentimento e senso/significato, che hanno avuto per noi.

Fondamentale aver chiaro, e chiarire al cliente, che ciò che abbiamo provato e riconosciuto come importante e significativo, immergendoci (immaginariamente) noi stessi nei vissuti riportati dal nostro cliente, è tutta materia nostra, riguarda noi e la nostra soggettività, parla, fenomenologicamente[2]del nostro modo di stare al mondo ed in vita.

Chiediamo al cliente se (anche solo per gioco, come esercitazione di consapevolezza) può identificarsi nei contenuti dei nostri feedback.

Cosa gli succede se lo fa? (la domanda non è retorica, richiede una risposta).

Una buona gestione di una tale tipologia di feedback ha grandi possibilità di attivare, nell’altro, processi di consapevolezza per lui sorprendenti, avviati:

  • dal riconoscimento/accettazione di emozioni/sentimenti prima negati,
  • dalla scoperta di nuovi, possibili ed allettanti, orizzonti di pensieri ed azioni,
  • dalla stimolazione di nuovi stati d’animo, caratterizzati da fiducia, speranza, eccitazione.

La capacità di gestire, positivamente, tali feedback è una competenza che può essere appresa solo allenandola, esercitandola sotto la guida di trainer esperti.

Troppo difficile accorgersi delle nostre contaminazioni di pensiero e sentimento, se non c’è qualcuno in grado di farcele notare.

Troppo difficile imparare a riconoscere ciò che è nostro (in materia di dinamiche psicologiche e comportamentali), distinguendolo da quello che è dell’altro.

Impossibile imparare ad “accogliere”, nei termini qui presentati, senza sperimentarlo con l’aiuto di un “maestro”.

Impossibile imparare ad “ascoltare”, senza aver imparato ad accogliere quello che c’è da ascoltare.

Impossibile riuscire ad “accogliere ciò che, mettendoci in ascolto, sentiamo”, senza aver sperimentato questa tipologia d’ascolto, allenandola sotto la guida di trainer esperti.

È questa l’esperienza che caratterizza la Formazione IN Counseling, prima, il fare counseling, dopo.

È questo ciò che caratterizza il far counseling: la capacità di dare feedback che siano “espressione dell’esperienza di sentimento e di senso vissuta nell’identificarsi, nel calarsi immaginariamente negli accadimenti riportati, e nei loro protagonisti”.

Questo qualifica il nostro saper far counseling e caratterizza la professionalità di noi counselor.

Come fare ad accogliere, ad ascoltare e a dare questa tipologia di feedback è la “materia prima” trattata in ogni percorso di Formazione IN Counseling.

Questa “materia prima” sono le “pratiche” di ascolto, d’accoglienza, d’osservazione non giudicante, di comunicazione non violenta, empatica, compassionevole, di presenza attenta, consapevole, interattiva, di cui consiste la nostra Formazione IN Counseling; tutte “pratiche” che analizzeremo e presenteremo nel dettaglio nei capitoli successivi; tutte “pratiche” che articolano lo Yoga S.P.A., lo Yoga del Sentire, del Pensare, dell’Agire, alias il nostro fare “Yogging”, con i nostri clienti: l’insieme di “pratiche” che qualificano e permettono il nostro saper fare counseling.

1.3  Lo Yogging = Yoga S.P.A.

        Yoga del Sentire, del Pensare, dell’Agire.

Come si apprende il “saper far counseling”?

  1. Imparando ad ascoltare, allenando le proprie capacità di accoglienza/ascolto,
  2. Imparando a comunicare efficacemente, in modo gentile e non violento,
  3. Imparando a dare i feedback, propri del Counseling,
  4. “Lavorando” continuativamente su se stessi,
  5. Studiando, per imparare a conoscere l’uomo, nei suoi aspetti fondamentali di funzionamento” (Cultura e Natura Umana),
  6. Ricevendo supervisione.

Saper far counseling vuol dire saper sostenere, nei propri clienti, lo sviluppo di quei processi di consapevolezza che permetteranno loro di meglio affrontare le difficoltà che stanno vivendo, rispetto cui chiedono aiuto.

Un processo di consapevolezza è una successione di accadimenti, non preordinati, che si sviluppa per il loro essere funzionalmente collegati; ciò che accade in un processo di consapevolezza ha sempre un collocamento in ognuno dei tre registri della nostra esistenza, quelli del:

  1. Sentire
  2. Pensare
  3. Agire

Vale a dire che tutto ciò che accade in uno di questi tre registri produce effetti negli altri due.

Un processo di consapevolezza ci accompagna positivamente, se non è in alcun modo ostacolato, verso azioni, pensieri e sentimenti, la cui opportuna integrazione promuove il miglior stato di soddisfazione e benessere esistenziale possibile.

Un processo di consapevolezza fluisce naturalmente in funzione della qualità del contatto che con esso manteniamo.

La qualità di tale contatto è funzione della correlazione/integrazione di quanto Sentiamo, Pensiamo, Agiamo; quanto più questa correlazione/integrazione è adeguata, in funzione del bisogno che la muove, tanto più alto sarà il valore di questa qualità.

Un chiaro riconoscimento delle interazioni tra il nostro Sentire, Pensare e Agire ci sostiene e orienta nella migliore gestione dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e comportamenti.

Saper far counseling vuol dire saper aver fiducia nei processi di consapevolezza e nei loro esiti, assegnandosi esclusivamente il compito di aiutare i propri clienti ad attivare i propri e portarli avanti, fiduciosi che tanto basterà per permettere loro di meglio affrontare le difficoltà che stanno vivendo, fino, se possibile, a risolverle.

Come si attiva e sostiene lo sviluppo di un processo di consapevolezza?

Da un punto di vista generale, precisato che la consapevolezza riguarda l’integrazione di coscienza e conoscenza, di ciò che sta accadendo, dentro e fuori di noi, e di come vi corrispondiamo, attiviamo i nostri processi di consapevolezza rivolgendo l’attenzione, concentrandoci, su ciò che sentiamo, pensiamo, facciamo (chiaramente, rispetto a ciò che sta accadendo e che ci coinvolge).

Facendo la spola (vedi cap. 3.2) tra ciò che Sentiamo, Pensiamo, Facciamo, arriviamo a intuire/scoprire/comprendere qualcosa, che ci era oscura, riguardante ciò che ci sta accadendo, questo attiverà un nostro processo di consapevolezza, relativo:

  • allo stato di un nostro bisogno,
  • a come ne stiamo impedendo la soddisfazione,
  • a come, invece, potremmo procedere per aiutarci a soddisfarlo.

Rivolgersi, prestare attenzione, esplorare, concentrarsi su ciò che sentiamo, pensiamo, facciamo, facendo la spola tra questi tre piani, è quello che qui proponiamo di chiamare “Yoga S.P.A.”, lo Yoga del Sentire, del Pensare, dell’Agire.

Chiamiamo “Yogging” fare questo tipo di yoga, il cui scopo è quello di meglio integrare ciò che sentiamo, pensiamo e facciamo, per meglio gestire ciò che ci sta mettendo in difficoltà.

La formazione di noi counselor è centrata sull’imparare ad ascoltare, accogliere, osservare senza giudicare, esercitare una presenza empatica, attiva e consapevole, comunicando con modi gentili e compassionevoli.

Sono queste le “pratiche” di base del nostro fare counseling, che ci permettono di stare in contatto con i nostri clienti, agendo opportunamente le nostre relazioni con loro.

Sono queste le pratiche di base su cui si basa il nostro fare Yogging, nel quale coinvolgiamo i nostri clienti, per esplorare, con loro, ciò che loro stessi Sentono, Pensano, Fanno ed i modi in cui lo integrano e/o lo separano.

Riprenderemo la questione qui in oggetto, quella del “come si apprende il saper far counseling?”, più dettagliatamente e compiutamente, nel capitolo 3 (Il Counseling e l’arte dello Yogging) del presente manuale.

Adesso soffermiamoci sul concetto di Yogging.

“Yogging” è un neologismo coniato per indicare ciò che, principalmente, caratterizza sia il fare la “Formazione IN Counseling”, sia il fare Counseling.

Yogging è il termine che può rappresentare, ontologicamente, l’essenza del Counseling, il suo consistere.

Cos’è il Counseling? In cosa consiste?

Il Counseling è una relazione d’aiuto professionale, alla quale si ricorre per meglio affrontare qualsiasi problematica esistenziale.

Chiamiamo Yogging l’integrazione delle pratiche (ascolto, accoglienza, osservazione non giudicante, presenza attivamente empatica, comunicazione non violenta, compassionevole), messe in atto per fare Counseling.

“Yogging”, cioè Yoga S.P.A., yoga del sentire, del pensare, dell’agire.

Come nasce questo termine?

Prima di scrivere questo manuale, per molto tempo, mi sono interrogato sulla possibilità di denominare le attività di counseling, con un nome in grado di rappresentarle opportunamente.

Volevo trovare un nome che, indicando le attività tipiche del Counseling, ne esprimesse la sostanziale diversità da quelle degli psicologi, aiutando noi counselor italiani ad uscire dalla penosa guerra che alcuni di loro continuano a farci.

C’è voluta una sessione di Yoga della risata, condotta nella mia Scuola IN Counseling da un’allieva tirocinante, per accendermi la giusta lampadina.

Dello Yoga ho immediatamente visto l’intenzione/funzione di “legare” tutto ciò che sollecita ed attiva; un “legare” agito in chiave di miglioramento e sviluppo delle funzioni psicofisiche di chi lo pratica.

Mi sono detto:

Anch’io, facendo Counseling, faccio qualcosa di simile! Cosa lego? Lego il mio “Sentire”, il mio “Pensare”, il mio “Agire”, al “Sentire”, al “Pensare” e all’ “Agire” del mio cliente.

Eureka! Il Counseling potrebbe essere visto come lo Yoga del “Sentire”, del “Pensare”, dell’ “Agire”.

Questo qualificherebbe il Counseling, in modo forte e chiaro, come attività squisitamente pratica/pragmatica, al punto che potremmo addirittura rielaborarne il nome, facendolo diventare “PragmaCounseling”.

Ma facciamo un passo indietro e rivisitiamo il filo dei pensieri che mi hanno condotto allo “Yogging”:

  1. Fare Yogging vuol dire agire un “sistema di pratiche”, strategicamente, al fine di promuovere lo sviluppo della nostra “consapevolezza emotiva”, vista come chiave di volta per l’individuazione e l’attivazione di stati d’animo, pensieri e comportamenti in grado di migliorare lo stato delle cose presenti nella nostra vita, ogni volta che ci ritroviamo in una qualche situazione di difficoltà esistenziale, individuale, di coppia, di gruppo.
  2. La “Consapevolezza emotiva”, cui qui facciamo riferimento, è quello stato dell’essere personale, funzione dell’ascolto propriocettivo e dell’associata rielaborazione cognitiva, che ci permette il riconoscimento di emozioni, sentimenti e sensazioni fisiche, nonché delle dinamiche di pensiero e comportamento a queste collegate.
  3. Il “sistema di pratiche” cui ci appoggiamo per fare Yogging accompagna una varietà di esercitazioni/sperimentazioni (individuali, di coppia, di gruppo), di tipo sensoriale, dialogico, artistico, intellettuale, meditativo, organizzate e gestite per:
  4. far emergere, nel “qui e ora” del nostro fare Yogging, le emozioni, i sentimenti, le sensazioni, collegate alle difficoltà esistenziali che si vogliono affrontare;
  5. analizzarne e studiarne le relazioni con le associate dinamiche di pensiero e di comportamento che hanno accompagnato l’insorgenza delle difficoltà che si vogliono superare e che ancora ne ostacolano la risoluzione;
  6. individuare strategie di uscita e di risoluzione o, almeno, di miglioramento della situazione.
  7. Fare Yogging vuol dire, quindi, lavorare sulla propria e altrui consapevolezza emotiva, per attivarne le correlate dinamiche intelligenti di pensiero, comportamento e sentimento. Vuol dire valorizzare la propria e l’altrui intelligenza emotiva, attraverso una serie di pratiche di “Yoga-S.P.A.”: lo “Yoga del Sentire, del Pensare e dell’Agire”.
  8. La parola Yoga deriva dalla radice sanscrita «Yug» che significa unire, legare assieme, soggiogare, usare ed applicare, dirigere e concentrare l’attenzione.
  9. Facendo Yogging leghiamo, adeguatamente e funzionalmente, il nostro “Sentire-Pensare-Agire”; lo facciamo diventare una sorta di “sistema operativo psico-fisico” in grado di produrre, alla bisogna, quello sviluppo d’intelligenza emotiva necessaria per individuare/scoprire come meglio affrontare le difficoltà che stiamo vivendo, muovendoci verso il nostro miglior benessere esistenziale possibile.
  10. La condivisione professionale dello Yogging, con un cliente, è quanto qualifica la relazione di Counseling.
  11. Nella mia esperienza di counselor, e di formatore di counselor, riconosco che il comune denominatore di chi mi chiede aiuto ad affrontare le proprie difficoltà, consiste nel non riconoscere, e/o nel non saper come fare a gestire, le proprie emozioni, collegandole a più funzionali atteggiamenti mentali e comportamentali.
  12. La relazione di counseling, per chi ne è cliente, è un’esperienza di apprendimento di come poter meglio integrare i propri pensieri, i propri comportamenti e le proprie emozioni, in vista del miglioramento dello stato di difficoltà esistenziali che sta affrontando.
  13. La cosa avviene in forza del saper far “Yogging” del counselor, un sapere che viene condiviso col cliente, che ne beneficia degli effetti.

Adesso facciamo un passo avanti e riconosciamo che il saper far leva sulle emozioni per attivare e sostenere lo sviluppo di processi di consapevolezza e di crescita personale altro non può essere che un’arte.

Lo Yogging, allora, è una forma d’arte, che punta ad una particolare catarsi, che consiste in un’integrazione di pensieri-sentimenti-azioni in grado di migliorare le capacità soggettive di far fronte alle difficoltà del vivere, piccole e grandi; un’arte la cui pratica produce benessere.

Un’arte di cui noi counselor siamo esperti e che utilizziamo professionalmente per aiutare i nostri clienti.

Come sarà meglio presentato nel capitolo sulla sua Storia, il Counseling, come attività professionale:

  • Nasce dalla rielaborazione di tradizioni e pratiche della Filosofia classica e moderna, occidentale e orientale; riprende e arricchisce intuizioni e prassi di tipo Pedagogico;
  • Si sviluppa in contatto con tutto il “ground culturale” umanistico della storia dell’arte e delle scienze sociali;
  • Accoglie ed utilizza le conoscenze messe a punto ed offerte all’umanità intera dalla Psicologia e Psicoterapia moderna, dalla tradizione culturale-religiosa orientale e dalle sue pratiche meditative-ascetiche.

Arrivo, quindi e creativamente, a individuare il termine “Yogging” mosso da due influenze:

  1. Quella “spirituale” delle filosofie yoggiche orientali, di stampo meditativo.
  2. Quella del counseling professionale statunitense e delle sue derivate italiane; un counseling visto non certo, riduttivamente, come semplice competenza psicologica, ma come particolare attività relazionale, di “accompagnamento”, offerta a chi, trovandosi in un qualche difficile momento della propria esistenza, chiede aiuto, per attraversarlo.

Queste due influenze sono declinate semanticamente nel neologismo “Yogging”, che ha come radice il termine “Yoga” e come desinenza la particella grammaticale “ing”, che nella lingua inglese termina le declinazioni verbali del modo “Gerundio”; un modo verbale usato per indicare le azioni in corso, che provengono dal passato e preannunciano il futuro.

Come il Counseling!

Che ha anch’esso una declinazione linguistica terminante in “ing”, a indicare un’azione in corso, in un tempo presente, che costruisce ponti solidi, tra passato e futuro della nostra esistenza.

Quindi, la radice “Yoga” attesta i collegamenti con la cultura filosofica-meditativa-religiosa orientale e la desinenza “ing” vuole essere, innanzitutto, un preciso tributo al Counseling.

Il Counseling, un’attività professionale figlia delle tradizioni culturali occidentali, che incontra cultura, filosofie e pratiche appartenenti alla tradizione classica orientale e a queste si lega.

Della “storia” di questa integrazione, segnata dalla nascita del Counseling, dai suoi sviluppi e dal suo “ricomporsi” come struttura di pratiche che qui abbiamo deciso di chiamare “Yogging”, vedremo le tracce nel prossimo capitolo (Capitolo 2. Storia del Counseling) di questo manuale.

Alle pratiche stesse di “Yoga-S.P.A.”, invece, è dedicato l’intero terzo capitolo.

Ritornando ora, per chiudere questa prima presentazione dello Yogging, alla domanda che l’ha introdotta: Come si apprende il saper far counseling?

Possiamo rispondere: allenandosi a fare Yogging!

Quali risultati produce il “saper far counseling”?

Quando, alle prese con una qualche difficoltà esistenziale, chiediamo aiuto a un counselor, ci apriamo a un’esperienza che:

  • Attiverà e svilupperà in noi quei processi di consapevolezza personale, che ci aiuteranno a meglio affrontare le difficoltà che stiamo vivendo;
  • Ci darà una più chiara visione del quadro problematico in cui ci ritroviamo;
  • Produrrà un cambiamento di stato d’animo, collegato all’insorgenza e allo sviluppo, in noi stessi, di un sentimento di fiducia nelle nostre possibilità di riuscire a far fronte alle difficoltà per le quali stiamo chiedendo aiuto;
  • Migliorerà il nostro senso di responsabilità personale e la capacità di declinarla più efficacemente.

Ancor più interessanti sono i risultati, che il “saper far counseling” produce nella vita di chi diventa counselor e si dedica al counseling come attività centrale della propria esistenza.

Tra questi risultati, segnaliamo:

  • un netto miglioramento degli stati di consapevolezza personali (chiara visione, chiari sentimenti, chiare azioni);
  • un’importante valorizzazione delle proprie responsabilità e delle loro funzioni;
  • un miglioramento delle capacità di comunicazione, maggior forza, coraggio e capacità di gestire situazioni relazionali difficili;
  • la fiducia del “sentire”: quel saper stare con pazienza nel processo del sentire, fiduciosi del fatto che prestando attenzione, ascoltando, connettendoci con ciò che sentiamo (propriocettivamente), emergerà in noi la comprensione e la capacità del “cosa fare e come”, per meglio rispondere a ciò cui siamo chiamati dalla, e nella, nostra vita;
  • una buona capacità di concentrazione;
  • una confortante propensione ad agire con saggezza;
  • un’interessante attitudine alla pulizia delle proprie afflizioni mentali (convinzioni limitanti);
  • una sostenente abitudine alla rielaborazione dei propri sentimenti ostacolanti;
  • una personalità più aperta, compassionevole, comprensiva ed empatica;
  • una più che significativa valorizzazione della propria “presenza”, quel saper esserci e stare nelle circostanze della vita, soprattutto in quelle in cui il contatto con l’altro, con l’ambiente, risulta essere più complicato e difficile.

Come si attesta e certifica il “saper far counseling”?

Fermo restando che l’attestazione/certificazione di maggior valore, di un qualsivoglia saper fare, non può che essere data dall’evidenza di ogni sua positiva messa in atto, oggi, in Italia, relativamente al counseling, esistono due tipi di attestazione/certificazione:

  1. Vi sono “Scuole di Counseling”, private, che gestiscono percorsi formativi di counseling, la cui idoneità è riconosciuta da almeno una tra le associazioni nazionali di counselor operanti in Italia; tali scuole rilasciano un diploma, che attesta il buon esito dell’esperienza formativa in counseling svolta seguendo le proprie attività didattiche.
  2. Vi sono poi delle associazioni nazionali di counselor, che certificano le competenze professionali dei propri associati, per il tramite di un esame d’accesso all’associazione stessa e di periodici controlli sull’aggiornamento professionale. Tali associazioni hanno, a loro volta, un riconoscimento pubblico, se iscritte in uno specifico registro del Ministero dello Sviluppo Economico.

Viviamo in una dimensione storico-sociale molto complessa, in cui disporre di buone credenziali di riconoscimento del nostro valore professionale può agevolarne il proporlo ed offrire un utile criterio di selezione a chi lo sta ricercando.

Per noi counselor, ottenere una certificazione di valore delle nostre competenze professionali è un’opportunità di particolare importanza e di garanzia per i nostri clienti.

Allo stato attuale, in Italia, la questione delle attestazioni/certificazioni delle competenze di counseling funziona cosi:

  1. La gran parte dei counselor italiani sono iscritti ad associazioni nazionali di counselor, che hanno come scopo principale quello di promuovere il counseling, qualificare la professionalità dei propri associati e tutelarne il mercato.
  2. Tutte le associazioni nazionali di counselor richiedono ai propri soci determinati requisiti, e verificano che, alcuni di questi, siano mantenuti nel tempo. Tali requisiti sono:
  3. Un’età anagrafica minima di 23 anni.
  4. Una scolarità minima di base, che, per alcune associazioni è quella della scuola media superiore, per altre è quella della laurea breve (le associazioni per cui è sufficiente un diploma di maturità scolastica richiedono, anche, una comprovata esperienza di lavoro nel sociale).
  5. Un diploma di counseling conseguito presso un ente formativo riconosciuto dall’associazione stessa (che riconosce solo quegli enti che a loro volta si impegnano, formalmente, a rispettare specifici parametri formativi).
  6. Un aggiornamento e supervisione professionale continua.
  7. Un’assicurazione personale di responsabilità civile, collegata al proprio lavoro di counselor.
  8. Il superamento di un esame per l’iscrizione all’associazione stessa.
  9. Rispettati tali requisiti, il counselor viene associato e può rinnovare la propria associazione, annualmente.
  10. L’associazione nazionale rilascia un certificato di competenza professionale in counseling, che risulta essere il più importante, formale, riconoscimento dell’identità professionale di counselor, che oggi è possibile ottenere in Italia.
  11. L’iscrizione a un’associazione di counselor iscritta al MISE (Ministero Sviluppo Economico) permette, a noi counselor, l’iscrizione ad un registro ministeriale che vale come titolo riconosciuto per la partecipazione a concorsi pubblici che richiedono, tra le altre, anche competenze di counseling.

Le associazioni italiane di counselor (tranne AICo) non prevedono il superamento di un esame pratico in cui il “saper far counseling” sia sottoposto a verifica.

L’esame d’ammissione prevede la presentazione delle certificazioni attestanti i requisiti qui sopra esposti (vedi punto 2.) e il superamento di una o più prove, di carattere teorico, in alcuni casi su “cos’è il counseling e come lo si esercita”, nella gran parte dei casi, invece, sulla conoscenza dei vari regolamenti associativi e degli aspetti giuridici che riguardano il counseling in Italia.

Le reali capacità di fare counseling di chi richiede d’associarsi non sono esaminate, rimandando questa responsabilità agli enti formativi in counseling.

I principi cui s’ispirano le associazioni che non richiedono il superamento di un esame pratico del

“saper fare counseling” sono i seguenti:

  1. La responsabilità di formare compiutamente il “saper fare counseling” è dell’ente formatore, che in tal senso si impegna, organizzando per i propri allievi percorsi formative ad hoc e relative verifiche di buon andamento degli stessi.
  2. Garanzia del valore di tali percorsi formativi è il loro essere uniformati alle direttive (monte ore, durata, programmi, docenti, logistica, ecc. ecc.) che in materia dispone l’associazione stessa.
  3. Sul valore, l’adeguatezza e la funzionalità di tali direttive ricade la responsabilità dell’associazione, che ha anche il compito di verificare che tali direttive siano adeguatamente rispettate dagli enti formatori, nonché dell’oculato riconoscimento/accreditamento, e verifica, degli stessi.

Il criterio su cui si basa una tale impostazione potrebbe essere riassunto nei seguenti termini:

“Chi ha seguito con successo (testimoniato dal diploma ricevuto) il percorso di formazione di una scuola da noi riconosciuta, perché si uniforma ai nostri parametri formativi, non può che saper fare counseling”.

Su un criterio opposto si basa chi preferisce valorizzare il “saper fare counseling”, che così potrebbe essere riassunto:

“Chi dimostra di saper far counseling, vuol dire che ha seguito un percorso formativo ad hoc”.

Al di là, comunque, dei principi su cui si basa la certificazione della professionalità di un Counselor, a chi scrive questo manuale appare certo che:

  1. Tutto ciò che si muove intorno alla certificazione della nostra professionalità è importante per noi Counselor se aiuta il Counseling a essere riconosciuto come nostra specifica attività professionale.
  2. In questa direzione, sarebbe certamente utile se lo Yogging, cioè il modo di mettere in campo le “pratiche” del counseling (Ascolto, Accoglienza, Osservazione Non Giudicante, Presenza attiva e consapevole, Comunicazione Non Violenta, empatica e compassionevole) venisse pubblicamente riconosciuto come caratteristica distintiva del nostro fare Counseling.
  3. Questo aiuterebbe noi counselor a farci riconoscere e ad affermarci.

 “Chi sono i counselor?

Sono quelli che fanno Yogging!”

Usciremmo così da un bel paradosso!

La qualità più importante del nostro essere counselor è quello che sappiamo fare, cioè legare, funzionalmente, un insieme di “pratiche” cui nessuno ha dato un nome.

Tutti noi sappiamo che CIÒ CHE NON HA NOME NON ESISTE.

Questo è il paradosso: ciò che più e meglio qualifica e identifica il nostro fare Counseling NON HA NOME e così ci neghiamo la possibilità più semplice di rivendicarlo come un qualcosa di nostro, particolarmente bello, buono, utile e importante.

Qui si propone di chiamarlo Yogging. Allo Yogging verrà dedicato l’intero capitolo 3, del presente manuale.

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[1] Una prima presentazione delle “interruzioni di contatto” la troviamo in F. Perls, “L’approccio della Gestalt”, Astrolabio, Roma, 1977, quando ci parla dei meccanismi di base della nevrosi: introiezione, proiezione, confluenza, retroflessione. Molto interessante, anche, quanto proposto sulla stessa materia in P. Clarkson, “Gestalt Counseling”, Sovera 1992. La Clarkson analizza le interruzioni di contatto nei loro rapporti con i processi di consapevolezza che sostengono i cicli di soddisfazione dei nostri bisogni, aggiungendo, alla prima classificazione di Perls, altri tre meccanismi nevrotici: la desensibilizzazione, la deflessione e l’egotismo. In questo manuale le interruzioni di contatto sono presentate analiticamente nel capitolo 6.5 “La Teoria della Gestalt, riferimento teorico d’eccellenza per il Counseling”.

[2] La Fenomenologia è lo studio delle manifestazioni che un accadimento può assumere, nella percezione di chi lo osserva o di chi ne è parte in causa. Fenomenologicamente, quindi, uno stesso accadimento può avere sensi e significati diversi, in collegamento agli individui che tale accadimento osservano o vivono. Sulla materia, un testo di grande valore è quello di P. Quattrini, “Fenomenologia dell’esperienza”, Zephyro, Milano, 2007.

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