La storia di Agnese. Il Counseling e l’arte dello Yogging.
Agnese è una donna di quarant’anni, alta, fisicamente imponente.
Ha un’aria da ragazzino sperso, che ancora non ha compreso come giri il mondo e, per questo, ci si muove spaesato e con circospezione e, nonostante ciò, ogni suo gesto appare avventato…
Così comincia la storia di Agnese, che verrà ripresa e raccontata tutta tra poche righe, giusto il tempo di una piccola introduzione/presentazione sullo Yogging, sul Counseling, su…
Il Counseling e l’arte dello Yogging.
CAPITOLO 3:
“Counseling. Manuale di Istruzione & di Formazione”
Cos’è lo “Yogging”?
Yogging è fare lo Yoga S.P.A., lo Yoga del Sentire, del Pensare, dell’Agire.
È quanto facciamo noi counselor per imparare a fare Counseling ed è quanto facciamo con i nostri clienti, per fare Counseling con loro.
Il Counseling, di cui in questo manuale si tratta, è la relazione d’aiuto professionale praticata da un counselor, nelle proprie sessioni di Counseling, in forza di uno specifico e particolare modo di stare con se stesso, in relazione con il proprio cliente, e di gestirne le dinamiche relazionali, con particolare riferimento a quelle di comunicazione; il tutto finalizzato a produrre, nel proprio cliente, sviluppi di consapevolezza tali da migliorare significativamente le sue capacità/possibilità di affrontare le situazioni problematiche rispetto alle quali sta chiedendo aiuto.
Presupposto fondamentale del nostro fare Counseling è sapere che gli sviluppi di consapevolezza del cliente, cui ci riferiamo, saranno determinati da quanto, circa gli accadimenti che lo stanno mettendo in difficoltà, lo stesso cliente riuscirà a rendersi conto delle interazioni in essere tra ciò che “sente” (emozioni, sentimenti, sensazioni fisiche), ciò che “pensa” (giudizi, ragionamenti, progetti, immaginazioni) e ciò che “agisce” (comportamenti, azioni, atteggiamenti).
Miglioriamo i nostri stati di consapevolezza facendo Yogging, cioè praticando lo “Yoga del Sentire, del Pensare, dell’Agire”, cioè mettendo in atto:
- un determinato modo di contattare il nostro “sentire” (modo che chiamiamo “ascolto propriocettivo”),
- un determinato modo di “pensare” (che consiste nel collegare pensiero, sentimento e azione),
- un determinato modo di “agire” (che consiste nel praticare esercitazioni di carattere simbolico-esperienziale atte a progettare nuovi e più funzionali atteggiamenti comportamentali, emotivi e di pensiero).
Con la storia di Agnese, raccontata in prima persona, da chi scrive (autore del presente manuale e direttore della Scuola IN Counseling Lo Specchio Magico Torino), e con ciò che la seguirà, in questo capitolo 3 (“Il Counseling e l’arte dello Yogging”), ci ripromettiamo di presentare, rendendolo più chiaro possibile, cosa sia lo Yogging, come lo si faccia, come e quanto fare Yogging possa essere considerato l’anima del Counseling e del suo farlo.
La storia di Agnese
Agnese è una donna di quarant’anni, alta, fisicamente imponente.
Ha un’aria da ragazzino sperso, che ancora non ha compreso come giri il mondo e, per questo, ci si muove spaesato e con circospezione e, nonostante ciò, ogni suo gesto appare avventato.
Mi ha cercato perché voleva informazioni sulla mia scuola di counseling.
Agnese è alla ricerca di nuove possibilità di lavoro, che le permettano di valorizzare la propria (auto decantata) indole di persona buona, generosa, sensibile, con una particolare propensione ad aiutare il prossimo.
L’incontro si è subito trasformato in un colloquio di counseling, tanto forte è emerso il suo bisogno di raccontarsi e di trovare aiuto.
Alle mie prime domande, fatte per cominciare a conoscerla, ha risposto d’un fiato, raccontandomi ciò che più la tormentava:
- non riusciva a trovare un uomo con cui avere una relazione soddisfacente
- non riusciva a trovare un lavoro che le desse stabilità e sicurezza
- non riusciva ad avere rapporti con la propria famiglia d’origine che non fossero in qualche modo connotati da una qualche forma di conflitto.
Non poteva certo sorprendermi il suo dichiararsi persa, né il suo manifesto stato d’ansia; uno stato che sembrava esserle appiccicato addosso, inesorabilmente.
Da un paio d’anni aveva lasciato il lavoro, nell’azienda paterna (che il padre stava dismettendo e che lei non considerava possibile rilevare e portare avanti).
Era ancora fortemente provata dalla fine di una relazione d’amore, con un uomo molto più grande di lei, un suo professore di liceo, amato da quando aveva quindici anni, del quale aveva abortito, spontaneamente, un figlio, due anni prima di questo nostro incontro.
Anche per questo, diceva, di non avere più fiducia negli altri, in particolare negli uomini.
Mi racconta della psicoterapia, che ha fatto per trovare un modo di uscire dalla disperazione in cui era piombata dopo la doppia perdita, dell’uomo amato e del bambino in grembo.
La psicoterapia, a suo dire, l’era servita per capire tante cose e spiegarsele, ma lei continuava a stare male e ad avere i suoi problemi, irrisolti.
Magari l’avrebbe aiutata fare una scuola di counseling?!
La Formazione IN Counseling, per il suo essere, innanzitutto, un percorso di consapevolezza, di crescita e di sviluppo personale, certo che l’avrebbe potuta aiutare!
Per poterla fare, però, c’era bisogno di uno stato di equilibrio personale, che ad Agnese sembrava mancare.
L’equilibrio personale cui mi riferisco è quello stato emotivo che permette a un individuo di stare con se stesso e con gli altri, nelle situazioni difficili della propria esistenza, senza esserne sopraffatto o lasciarsi andare a reazioni “contundenti”, quando viene contraddetto o, in qualche modo osteggiato, da chi, a quelle particolari situazioni, corrisponde in modi, dallo stesso individuo, non ritenuti consoni e/o che allo stesso individuo procurano qualche forma di dispiacere.
Di Agnese, mi tenevano in allarme il modo di contorcersi, sulla poltrona di fronte a me, e quello con cui reagiva alle domande che le facevo; nelle mie intenzioni, per comprenderla meglio, ma cui lei rispondeva immancabilmente con chiari segni ora di dispetto, ora di ansioso sospetto, come se dovesse difendersi da chissà quale malevola insinuazione, costringendomi ad una continua, ed estenuante, opera di rassicurazione.
La Formazione IN Counseling è un percorso fatto in gruppo, centrato sulla condivisione di esperienze, stati d’animo, valori personali e punti di vista, non sempre facili da far incontrare.
È richiesta la capacità di accogliere e saper stare con le parti in ombra della nostra umanità e di quella degli altri.
È richiesta una predisposizione ad accettare la diversità, propria e quella degli altri, una predisposizione a farla convivere, a valorizzarla e, nel caso, a trasformarla.
È necessaria la disponibilità ad accettare la sofferenza, quella propria e quella degli altri, senza farsi sopraffare da reazioni incontrollabili, che potrebbero impedire il sano e rispettoso confronto o muovere dinamiche conflittuali, all’interno del gruppo di formazione, non governabili.
Insomma, per fare la Formazione IN Counseling è indispensabile, se non proprio essere in pace con se stessi e con il mondo, almeno vivere con se stessi e con il mondo uno stato di non belligeranza aperta e continua, uno stato cioè in cui, pur con le nostre tensioni emotive, spirituali e comportamentali, riusciamo ad incontrare gli altri e a stabilire con loro patti che possano essere rispettati.
Per questo motivo, la Formazione IN Counseling, pur essendo un “campo” che ci aiuta a trovare i nostri possibili equilibri esistenziali ed emotivi, non può essere fatta da chi fa troppa fatica a stare in pace con se stesso; così come non può essere fatta da chi, per stare con gli altri, ha bisogno d’essere pienamente accolto a prescindere da ogni proprio atteggiamento, pensiero e gestione delle proprie emozioni.
Raccontai ad Agnese i miei dubbi e le mie perplessità, invitandola a tenere sospesa l’idea di iscriversi a una scuola di counseling.
Le proposi, invece, di fare qualche sessione, individuale, di counseling, per aiutarla a scoprire cosa potesse fare e come, per meglio affrontare le difficoltà esistenziali che stava vivendo; considerando, anche, questa esperienza, come un mezzo utile per comprendere se l’iscrizione a una scuola di counseling fosse una prospettiva adeguata alla propria situazione personale.
Cosa c’entra questa storia di Agnese con lo Yogging?
C’entra perché voglio utilizzarla come filo conduttore per presentare lo “Yogging”, come si fa e cosa produce.
Facciamo yogging con l’intenzione di attivare i processi di consapevolezza che ci aiuteranno a trovare migliori risposte di sentimento, pensiero ed azione, relativamente allo stato di difficoltà esistenziali che stiamo vivendo.
Lo yogging è un’attività che parte dal concentrarci sul nostro “sentire”, cioè dal metterci in ascolto, propriocettivamente.
Di cosa ci accorgiamo se prestiamo attenzione a ciò che sta capitando in noi, nel nostro corpo?
Ci accorgiamo di respirare e come?
Ci accorgiamo che ci batte il cuore e come? Con che ritmo?
Ci accorgiamo se abbiamo caldo o freddo?
Sentiamo muoversi qualcosa in noi?
Di quali sensazioni ci rendiamo conto?
Riusciamo ad avere percezione di ogni singola parte fisica che ci compone e ci dà corpo?
E in ognuna di queste cosa accade?
Qualcosa duole?
Qualcosa prude?
Qualcosa muove sensazioni di piacere?
Per sentire, e rispondere a queste domande, dobbiamo metterci in ascolto, rivolgendo la nostra attenzione alla dimensione sensoriale, propriocettiva, del nostro essere in vita.
Questo tipo di ascolto è l’Ascolto che caratterizza e qualifica il fare counseling ed è la base di partenza e di appoggio del nostro fare yogging.
Il tipo di counseling che qui, con questo “Manuale per la Formazione IN Counseling”, promuoviamo è centrato su di un “lavoro di consapevolezza”, che proponiamo di chiamare “Yogging”: lo Yoga S.P.A. – del Sentire, del Pensare, dell’Agire.
Facendo yogging puntiamo a migliorare la percezione di ciò che sentiamo, pensiamo e facciamo, per meglio integrarlo.
Per questo diciamo che lo yogging è un “lavoro di consapevolezza”.
Fare yogging, per meglio integrare sentimento, pensiero e azione, è un processo che parte dall’ascoltarsi, per “sentire”ciò che proviamo; prosegue col riconoscimento e la valorizzazione di ciò che abbiamo sentito; una valorizzazione che avviene per il tramite di pensieri ed azioni funzionalmente e coerentemente collegati a ciò che “sentiamo”, che abbiamo imparato a riconoscere e a tradurre in pensieri ed azioni funzionali al nostro benessere.
Lo yogging è un lavoro di consapevolezza che riconosce la consapevolezza come un processo che:
- parte dall’ascolto, propriocettivo,
- su di questo poggia il riconoscimento e l’attribuzione di senso, di ciò che si pensa e si fa,
- da tale riconoscimento e attribuzione muove alla ricerca/sperimentazione dei cambiamenti/miglioramenti possibili dei pensieri e comportamenti in corso,
- da tale ricerca/sperimentazione trae l’insorgenza di nuovi stati d’animo, funzionali alla realizzazione dei cambiamenti necessari per stare meglio.
In altre parole, l’idea dello yogging come lavoro di consapevolezza, si basa sulla considerazione della consapevolezza come processo (successione di accadimenti personali fra di loro collegati, ma non preordinabili), che si rende possibile per un individuo quando lo stesso riesce a “legare”, alias tenere in contatto e collegare in funzione del proprio benessere, ciò che sente, ciò che pensa e ciò che fa.
Dalla qualità di questi “legamenti” dipende il benessere delle persone.
Non per altro, il nostro fare counseling e la nostra Formazione IN Counseling sono centrati:
- da un lato, sul fare esperienza di come “leghiamo”, o “teniamo separati”, ciò che sentiamo, pensiamo e agiamo, nelle situazioni di difficoltà personali che ci ritroviamo a vivere; per riconoscerne le valenze, gli effetti, l’opportunità di cambiamento;
- dall’altro, sul fare esperienza di nuovi e diversi modi di “legare”, o “tenere separati” ciò che sentiamo, pensiamo e agiamo, per apprendere possibilità migliori di pensiero e azione; più capaci, cioè, di farci stare meglio!
Fare Yogging vuol dire “lavorare” sulla nostra consapevolezza, per renderne gli stati sempre più chiari e funzionalmente in grado di farci stare bene.
Appena accomodato in poltrona, dopo aver fatto sedere Agnese in quella di fronte alla mia (ma messa in obliquo, come la mia, perché il nostro “fronteggiarci” potesse contenere, anche, il nostro “affiancarci”), mi rivolgo a lei, guardandola negli occhi, con uno sguardo che la contempla tutta, e mi metto in ascolto; rivolgo cioè la mia attenzione su come mi sento e su cosa sento, in me; su cosa, rispetto a quanto Agnese mi dice e fa, risuona in me; su cos’altro e come, altresì, risuonerà in me, in corrispondenza agli accadimenti relazionali che, da lì in avanti, si svilupperanno.
Questo è il mio modo di cominciare a “fare yogging”: mi metto in ascolto.
A questo tipo di ascolto, invito, immancabilmente, ogni mio cliente, non appena gli sviluppi relazionali rendono congrua e adeguata una tale richiesta.
Invitare il cliente a mettersi in ascolto, spiegandogli cosa intendo con questo, è l’input d’avvio del mio coinvolgerlo nel “fare yogging”, insieme.
Siamo al nostro primo incontro di counseling, vero e proprio.
Agnese riparte da dove c’eravamo lasciati: la sua vita, la sua precarietà lavorativa, ma, soprattutto, da quanto le è accaduto con il suo vecchio professore.
Mi parla di un amore sbocciato quando aveva quindici anni, che diventa relazione, subito dopo il diploma.
Una relazione-passione che dura una decina d’anni.
Una relazione che lei abbandona quando comprende, amaramente e chiaramente, che non diventerà mai un vero e proprio stare insieme come compagni, coniugi che condividono la vita.
Passano altri dieci anni e, rincontrandosi per caso, rinasce la passione.
Agnese “sente” che “questa è la volta buona”. Il modo in cui si sono ritrovati (per caso, un segno del destino), e la passione che li ha travolti, dicono che questa volta non potranno far altro che stare insieme davvero, diventare coppia, compagni di vita, cementando così la loro passione amorosa.
A questo punto, nel cogliere l’afflato del suo dire “sento che questa è la volta buona”, la confronto sul senso di questo suo “sentire” e inizio, così, a fare yogging con lei.
Uno dei motivi dello yogging è la distinzione cognitiva tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo.
Cosa vuol dire “sento che questa è la volta buona”?!
Il senso comune assegna a questa dichiarazione un significato che, tra il più e il meno, potremmo riconoscere come un avere sensazioni fisiche che interpretiamo come messaggere di quel “senso-significato” che presentiamo come un “sentire”.
Ma la proposizione “questa è la volta buona” è chiaramente l’espressione di un giudizio, piuttosto che l’espressione di un sentimento.
Per questa ragione, presentarla come espressione di un sentimento, può fuorviare la coscienza di come stiano esattamente le cose.
Difficilmente mettiamo in discussione ciò che sentiamo, più facilmente lo assumiamo come una guida sicura, rispetto al da farsi; ovvero riconosciamo ciò che “sentiamo” come input di scelte obbligate.
Per questa ragione è meglio vederci chiaro sui nostri sentimenti e su tutto ciò che sentiamo.
– Agnese hai detto che “sentivi” che quel vostro nuovo incontrarvi era la volta buona; esattamente puoi dirmi cosa sentivi?
– mi sentivo emozionatissima, agitata, contentissima di questo nuovo incontro e di come si andava sviluppando; vedevo che anche lui era presissimo dalla cosa e tutto questo mi diceva che questa volta era diverso, che qualcosa di nuovo era scattato.
Rivolgere l’attenzione ai differenti contenuti di sentimento e di pensiero che l’affermazione “sento che questa è la volta buona” racchiude, è già fare yogging!
Per riconoscere i contenuti di sentimento e di pensiero di una tale espressione, e distinguerli, dobbiamo concentrarci, mettendoci in ascolto, sulle emozioni, sulle sensazioni e sui sentimenti che proviamo quando “sentiamo che questa è la volta buona”; dobbiamo, anche, concentrarci sulle nostre attività mentali associate e collegate a tale “sentire”.
In altre parole dobbiamo fare un’operazione di continua “spola” tra ciò che è opera della nostra mente e ciò che accade al nostro cuore e nel nostro corpo mentre “sentiamo” che “questa è la volta buona”.
Se lo facciamo, ci accorgiamo che l’uso del termine “sentiamo” è improprio?
Ci accorgiamo che più verosimilmente lo stiamo pensando?
Stiamo pensando che sì, questa potrebbe essere la volta buona e il pensarlo è un riflesso di un nostro sentimento di speranza, probabilmente lo desideriamo, sicuramente è quello che vorremmo.
Allora “sentire che questa è la volta buona” è uno stato d’animo e di pensiero, che integra desiderio, volontà, speranza, portandoci a valutare/giudicare “come la volta buona” quanto sta accadendo, nel nostro e nell’altrui mondo di sentimenti, emozioni e sensazioni e in quello dei nostri e degli altrui comportamenti.
Valutare è una forma di giudizio.
Valutare e giudicare sono funzioni del pensiero.
Stiamo pensando che “questa è la volta buona”!
Lo yogging è quello che facciamo per arrivare ad accorgerci di questo stato dello cose:
- facciamo la spola tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo;
- ci mettiamo in ascolto e ci concentriamo su ciò che sentiamo, distinguendolo attentamente da ciò che pensiamo;
- diamo cioè un nome a ciò che sentiamo e, se non è un’emozione (di piacere/dispiacere, gioia/rabbia, affetto/paura o sorpresa), un sentimento (speranza, interesse, curiosità,, impotenza, ansia, ecc.) o una sensazione fisica (calore, freddo, fremito, dolore, languore, prurito, ecc.), lo riconosciamo come un qualcosa attinente le attività del pensare (giudicare, immaginare, interpretare, riconoscere, credere, ecc.);
- ogni volta che mettiamo a fuoco un’emozione, un sentimento, una sensazione, ci interroghiamo sul possibile senso (significato) che questa può avere per noi. Esempio: mi metto in ascolto e immediatamente mi accorgo di provare piacere; un piacere che si irradia in me con sensazioni di languore e sottili vibrazioni che mi scorrono lungo il corpo; mi chiedo: “cos’è che mi sta procurando queste sensazioni di piacere?”; riconosco il mio desiderio di una “certa cosa” e quanto questo sia alimentato dal mio sperare di ottenerla; mi accorgo di tutto ciò perché a ciò che sento assegno un senso, un significato, attivandomi sul piano dell’autoanalisi, della riflessione, del riconoscimento logico. Insomma faccio un’opera di continua spola tra ciò che sento e ciò che penso! Quando mi accorgo di sentire qualcosa, mi interrogo su cosa questo qualcosa rappresenti per me, cosa mi possa voler dire, a quale mio bisogno si colleghi, quale possa esser il suo senso, come potrei coerentemente corrispondervi. Le domande che mi faccio sono quindi: “ a cosa devo quello che sto sentendo? Qual è il suo significato per me e cosa mi sta dicendo? A quale mio bisogno si collega e, in particolare, a quale stadio del suo processo di soddisfazione? Cosa posso fare e come per corrispondervi nel migliore dei modi? Quando, in forza del mio riflettere, il mio pensare offre buone risposte a questi miei interrogativi, risposte organizzate in proposizioni intellegibili e sensate, mi chiedo: “cosa e come mi fa sentire ciò che sto pensando?”; ben cosciente di quanto ciò che sto pensando, come risposta al mio interrogarmi, risulti dal lavorio delle mie facoltà mentali, volontariamente indirizzato al riconoscimento sia di quanto sto sentendo, sia del senso e del valore che questo possa comportare, per me.
Per rispondere all’ultima domanda di quelle elencate qui sopra, or ora (“cosa e come mi fa sentire ciò che sto pensando?”), devo rimettermi in ascolto. La spola continua.
Vediamolo in opera nel mio fare yogging con Agnese.
– Agnese, mi hai detto che, in occasione del tuo ritrovarti con Mario (nome di fantasia assegnato al suo ex professore), per come si è svolta la cosa e per la piega che stava prendendo, hai “sentito”che fosse la volta buona, che questa volta le cose fra voi sarebbero andate bene e sareste stati insieme come una vera e propria coppia, di compagni che condividono la vita?
– Sì, proprio così
– Hai detto che “sentivi” che quel vostro nuovo incontrarvi era la volta buona. Esattamente puoi dirmi cosa sentivi?
– mi sentivo emozionatissima, agitata, contentissima di questo nuovo incontro e di come si andava sviluppando; provavo un’attrazione fortissima verso di lui; vedevo che anche lui era presissimo dalla cosa e tutto questo mi diceva che questa volta era diverso, che qualcosa di nuovo era scattato.
– Ascolta Agnese, ti chiedo di metterti in ascolto, cioè di concentrarti su quello che senti, rivolgendo la tua attenzione alle sensazioni fisiche che riesci a percepire andandole proprio a cercare dentro di te, lungo l’intero tuo corpo, ma con un riguardo particolare nella zona tra il basso ventre e la gola. Aiutati col respiro, cioè immagina di respirare ora con il ventre ora con la pancia, ora col petto, ora con la gola, insomma usa il respiro come guida di perlustrazione dell’intero tuo corpo. Cerca le sensazioni e riconoscile come segno di una qualche emozione, di un qualche sentimento che stai provando. Tutto questo lavoro di ascolto, volto a riconoscere cosa stai “sentendo”, fallo pensando che sei proprio in quel momento lì, quando “sentivi che quella era la volta buona”. Insomma, torna col pensiero in quel momento, concentrati su cosa stai provando, come sensazioni fisiche, emozioni e sentimenti, mentre ti dici: “questa è la volta buona”.
– Ok. Ci provo.
– fallo pure con calma, prenditi il tempo che ti serve, fino a quando qualcosa non ti diventa particolarmente chiara.
Viene prima il sentire!
Lo yogging è un’attività che parte con il mettersi in ascolto, con la chiara intenzione di scoprire cosa si sta sentendo, cosa ci sta capitando sul piano emozionale e sentimentale e, poiché il sentire è un fenomeno che accade nel corpo e prende corpo per il tramite di sensazioni fisiche, a queste rivolgiamo la nostra attenzione, andandone alla ricerca, con l’aiuto del respiro.
Su mio invito, Agnese si mette in ascolto, tornando con il pensiero a quei momenti in cui “sentiva che quella era la volta buona”; chiude gli occhi per aiutarsi a concentrarsi e, dopo qualche minuto, apre gli occhi e mi guarda, con uno sguardo triste.
– Cosa ti succede?
– Mi sento triste.
Elemento fondamentale dello yogging, come attività caratterizzante il fare counseling, è la relazione: il counselor sta in relazione, si accorge di quanto in essa sta accadendo e vi corrisponde coerentemente.
Esempio: la tristezza di Agnese è lì, nel suo volto, nei suoi occhi coperti da un velo di lacrime trattenute, nel suo respiro pesante; Agnese è lì con me; stare in relazione vuol dire, per me, dar valore a quello che nella relazione ci sta accadendo: a lei sta accadendo d’essere triste, a me sta accadendo che me ne accorgo.
Allora il mio chiederle: “Cosa ti succede?” altro non è che l’atto relazionale, che sostiene lo sviluppo processuale-fenomenologico degli accadimenti caratterizzanti il nostro stare insieme e fare counseling, facendo yogging, cioè quello yoga del sentire-pensare-agire su cui si basa il mio fare counseling, con Agnese.
– E a cosa devi questa tua tristezza?
– Facendo l’esercizio di ascolto che mi hai detto di fare, inizialmente sono stata assalita dall’ansia, poi per fortuna mi sono ricordata di respirare e di usare il respiro nei termini che mi hai indicato. Mi sono accorta di quella contentezza di cui ti ho parlato ed ho provato rabbia, accorgendomi che era tutta un’illusione. Io ci speravo tanto che fosse la volta buona. Lo desideravo con tutta me stessa. Quell’uomo è sempre stato l’uomo di cui mi sono innamorata e che avrei voluto per me.
– Hum… ansia, contentezza, rabbia, speranza, desiderio, amore. Tutto questo ha sicuramente a che fare col sentire, quello vero, che è diverso dal pensare. Quindi saresti disposta a riformulare l’affermazione: “sentivo che era la volta buona”, cambiandola in “pensavo fosse la volta buona”?
– Ma sì. Certo che lo pensavo. Era quello che volevo, che desideravo, che speravo e che messo insieme a quello che stava accadendo, al nostro rincontrarci e volerci ancora e riprenderci, mi diceva così: “questa è la volta buona”.
Partire dal mettere a fuoco il “sentire”, distinguendolo dal “pensare”, ricorrendo alla pratica dell’ascolto (nei termini qui sopra presentati), condividendone e confrontandone, relazionalmente, gli esiti, è l’attività di base di questo nostro fare yogging, come struttura portante del nostro fare counseling.
Man mano che andremo avanti in questo capitolo, emergeranno altri aspetti dello yogging.
Ma ora continuiamo a “stare” con Agnese.
Non senza aver prima precisato che la valorizzazione del “sentire”, come un qualcosa “diverso dal pensare”, volta al riconoscimento dei reciproci influenzamenti, sentire-pensare e pensare-sentire, sia una struttura fondamentale del nostro fare yogging, come lavoro di consapevolezza caratterizzante il nostro fare counseling.
In questo caso, è bastato mettersi in ascolto, indagare quel “sentire” che fosse la volta buona, per riconoscerne i distinti contenuti di sentimento e di pensiero.
C’è voluta la conoscenza del counselor relativa ai diversi “domini” del “sentire” e del “pensare”, per:
- allertarsi immediatamente, quando Agnese ha usato una voce del verbo sentire, per rappresentare una funzione del pensare;
- coinvolgere Agnese in un’esperienza di ascolto, che muovesse al riconoscimento dei differenti contenuti di sentimento e di pensiero, mischiati e confusi, nella proposizione: “sento che questa è la volta buona”;
- confrontarla sull’esperienza di ascolto fatta.
Lo yogging di cui qui parliamo è un’attività che necessita della relazione e, nello stesso tempo, influenza gli sviluppi processuali della relazione.
L’esser-ci (sul senso dell’“esser-ci” proponiamo vari approfondimenti nel capitolo 4.5, “L’anima fenomenologica – Esistenzialista del Counseling”, di questo stesso manuale) del counselor, nella relazione di counseling, è quanto permette al counselor di scegliere cosa proporre al cliente, sia sul piano del dialogo, sia su quello delle esercitazioni (di ascolto, di drammatizzazione, di visualizzazione, di espressione, ecc. ecc.), che renderanno possibili il continuare a fare yogging, come lavoro (di consapevolezza) finalizzato agli sviluppi di consapevolezza necessari al cliente per meglio affrontare le difficoltà che sta vivendo.
Valga come esempio la seguente domanda, che spesso noi counselor rivolgiamo ai nostri clienti, per aiutarli a riconoscere il proprio “sentire”, distinguendolo dal proprio pensare:
“e questa cosa che dici di sentire, in particolare, dove la senti? cioè, in che parte del corpo?”
È questa una “semplice” domanda, che possiamo cominciare a vedere come avvio di una “semplice” esercitazione, pratica, di ascolto mirato, che, puntando all’individuazione dei “luoghi” e degli specifici contenuti sensoriali di ciò che qui continuiamo a chiamare “sentire”, aiuta il cliente a riconoscerne l’identità e a fare, così, esperienza di quel proprio “sentire”, scoprendo ciò che lo differenzia dal proprio pensare.
Così facendo, facevo yogging con Agnese: proponendole “esercitazioni”, che consistevano in una “messa in atto e/o in scena” di quanto coglievo, come particolarmente significativo, da quello che mi raccontava e dai modi che lo accompagnavano e caratterizzavano.
Grazie al proprio modo di stare in, e di agire la, relazione, il counselor può cogliere vari segni, dal significato nascosto, ma importante, della comunicazione non verbale del cliente.
A differenza di altri professionisti, noi counselor non interpretiamo tali segni in quanto espressione di un significato precodificato. Li cogliamo per il loro diventare “figura” (cioè emergere in modo chiaro dall’insieme dei modi di manifestarsi che il cliente sta agendo) nel campo di ciò che riconosciamo come potenzialmente significativo tra quanto il cliente sta mostrando di sé, con la propria comunicazione non verbale.
Insomma, se la nostra attenzione, sui modi di fare e di dire del cliente, coglie qualcosa di particolare, che intuiamo possa rappresentare qualcosa di particolarmente importante, quel qualcosa diventa per noi un “filo da tirare”, nel lavoro di consapevolezza che facciamo con il nostro cliente.
Per meglio “tirare” tale “filo”, imbastiamo sullo stesso, creativamente, una trama che lo metta in risalto.
Ci inventiamo cioè, una qualche possibile esercitazione, che metta in scena quel “qualcosa” che la nostra attenzione, la nostra osservazione non giudicante, ha colto (vedi, ad esempio, nella “Storia di Gioconda, la ragazza cui non era cresciuto il seno”, il mio chiederle di rimpettirsi, con indosso una sola canottierina, mettendo in mostra, così, seppur coperte, le forme di quel suo seno minuto).
Tale esercitazione diventa una leva del nostro fare yogging.
Le esercitazioni che, di volta in volta e alla bisogna, proponiamo servono per animare/amplificare, e renderli così più riconoscibili, i contenuti di sentimento, pensiero e azione che quel “qualcosa” può contenere.
Ogni esercitazione che proponiamo al nostro cliente muove dalla nostra intenzione di aiutarci e di aiutarlo a meglio riconoscere i contenuti di sentimento-pensiero-azione che hanno caratterizzato i suoi modi di affrontare quanto gli è capitato e che, immancabilmente, continuano a caratterizzare quanto gli sta capitando e le sue, correlate, difficoltà personali.
Le esercitazioni che proponiamo al cliente sono un’importante leva del nostro fare yogging.
Sono esercitazioni di ascolto, di osservazione, di rappresentazione scenica, di drammatizzazione, di espressione artistica.
Sono input relazionali volti a creare un terreno sul quale proporre al cliente di fare la spola tra ciò che sente e ciò che pensa, aiutandolo così a meglio riconoscere il senso e il valore dei suoi comportamenti, passati e presenti, e progettarne, nel caso, di migliori.
Quando il cliente assume una chiara visione di ciò che sente e pensa e di quali comportamenti i propri pensieri e sentimenti siano leva, la semplice domanda “a cosa ti serve fare quello che stai facendo?” assume una potenza formidabile.
Noi counselor partecipiamo a questa spola rispecchiandone le dinamiche, così come vengono da noi stessi vissute e riconosciute.
Tale “rispecchiamento” è offerto al cliente, principalmente, per il tramite di una particolare tipologia di feedback (vedi più avanti, cap. 3.3, “le pratiche di base del Counseling e l’arte dello yogging”), ma molto avviene in forza della spontanea comunicazione non verbale che il nostro stare in ascolto produce.
Abbiamo lasciato Agnese, che ci diceva:
– Ma sì. Certo che lo pensavo. Era quello che volevo, che desideravo, che speravo e che messo insieme a quello che stava accadendo, al nostro rincontrarci e volerci ancora e riprenderci, mi diceva così: “questa è la volta buona”
Prenderemmo sicuramente un abbaglio se pensassimo che, con questa dichiarazione, Agnese testimoni un proprio stato di buona coscienza e conoscenza dei “legami” intercorrenti tra quanto ha pensato e quanto ha sentito, nonché di quanto questo si sia riflesso nelle scelte comportamentali da lei stessa messe in atto nella relazione con Mario.
Questa dichiarazione, se debitamente valorizzata nella e dalla relazione di counseling corrente, può, però, essere un primo punto messo a segno a favore di un proficuo sviluppo dello stato di consapevolezza di Agnese, relativamente a quanto accadutole nella sua storia con Mario.
– quindi, Agnese, mi stai dicendo che hai interpretato il tuo fortuito rincontrarti con Mario e quanto da lì si è sviluppato fra voi, come la dimostrazione della vostra possibilità di stare insieme e, questa volta, nei termini da te voluti?
– più che una possibilità io l’ho vista come un segno, come un qualcosa che la vita ci indicava di fare, quasi ci imponeva!
Mi accorgo di collegare il senso di queste parole all’idea di “Ananke”, la dea greca delle necessità, l’impersonificazione mitologica del destino ineluttabile, come sequenza di accadimenti che ci riguardano e che non possono non avvenire; accadimenti che noi non possiamo impedire, data la loro “necessità” di svolgersi, per comporre la trama di destini ineludibili.
Ma sto facendo yogging!
Mi accorgo che sono scivolato sul pensare.
Così, invece di continuare con le mie riflessioni, faccio la spola, ritorno al mio sentire, mi concentro su quello che sento.
Come mi fa sentire riconoscere che alle parole di Agnese io reagisca pensando a “Ananke”?!
Mi fa incazzare!
Non mi piace questo spiegarsi quello che succede, e quindi anche i propri e gli altrui comportamenti, come dovuto ineluttabilmente alla volontà di forze superiori, che preordinano la nostra esistenza e i suoi contenuti esperienziali.
Preferisco pensare alla necessità come bisogno; un bisogno la cui soddisfazione reclama i propri diritti, senza per questo obbligare ad alcuna scelta, perché un bisogno può essere soddisfatto in tanti modi diversi e, infatti, persone diverse o una stessa persona, in momenti diversi della propria esistenza, soddisfano in modo diversi uno stesso bisogno.
Sto facendo counseling!
Sto con la mia responsabilità di agire da counselor, nella relazione con Agnese, cioè con modalità che sostengano/facilitino un incedere relazionale in grado di sviluppare i suoi migliori stati di consapevolezza.
Riprendo allora a fare yogging con Agnese, aiutandola a fare la spola tra ciò che pensa e ciò che sente.
– quindi, Agnese mi stai dicendo che pensavi che il vostro ritrovarvi, e riprendervi, fosse una sorta di segno del destino, che la vita vi offriva per spingervi a compierlo?!
– qualcosa del genere!
– E cosa te lo faceva pensare?
– dopo quasi dieci anni, senza più nessun contatto, all’improvviso me lo ritrovo alla festa di compleanno di una comune amica. Per me è un tuffo al cuore, lì per lì, tutti e due facciamo finta di niente, ma io, dopo alcuni giorni, passati a tormentarmi sul cosa potessi, dovessi, fare, lo cerco e riallaccio i rapporti con lui, perché sento che lui continua ad essere troppo importante nella mia vita e sento che dobbiamo rimetterci insieme … Sento che qualcosa tra noi è rimasto sospeso, che continua a legarci. Sento il bisogno di riavvicinarmi a quell’uomo.
Voglio verificare le sue reazioni e la tenuta dei miei sentimenti.. Così ricominciamo a frequentarci e diventa evidente che qualcosa di nuovo e potente si è messo in moto.
La quantità di volte che Agnese ricorre alla parola “sento” risuona in me come un allarme; quel suo dichiarare di sentire “che lui continua a essere troppo importante nella mia vita”, seguito dal suo dichiarare di sentire il bisogno di riavvicinarsi a lui, fare i conti con quanto è rimasto sospeso fra loro e verificare cosa di nuovo potrebbe svilupparsi, si collega certamente ad emozioni e sentimenti in grande agitazione, ma non precisamente definiti .
Di tali sentimenti, ciascuno di noi, può agevolmente farsi un’idea e sentirli, empaticamente, risuonare in se stesso; ma a quali pensieri di Agnese danno corpo?
Siamo d’accordo su questi?:
- lui è importante per me,
- voglio verificare (sperando di ottenere conferma positiva) la possibilità di rimetterci insieme,
- c’è qualcosa in sospeso tra noi, che val la pena, ma soprattutto voglio, riprendere e rilanciare.
Questi tre pensieri sono quanto io penso che stia pensando Agnese; così come penso che se Agnese li riconoscesse come pensieri, certamente collegati al suo sentire, ma comunque pensieri, questo le servirebbe a mettere ordine sui propri sentimenti e a non esserne fagocitata, fino al punto di agire comportamenti, per lei stessa, potenzialmente perniciosi.
Ma io sono io e Agnese è Agnese.
Quello che conta è quello che pensa lei!
Uno dei miei compiti è aiutarla ad averlo chiaro e, se ci riesco, potremmo anche arrivare a scoprire che quello che penso io poco centra con quello che pensa Agnese!
Svolgo questo compito facendo yogging con lei.
Così riparto dal “sentire”.
– Agnese mi hai detto che sentivi che lui era troppo importante per te, che sentivi il bisogno di riavvicinarti a lui e fare i conti con quanto di sospeso c’era ancora fra voi, ma quello che dici di sentire a me sembrano essere più chiaramente dei tuoi pensieri e delle tue volontà, così mi confondo. Puoi dirmi più semplicemente quali erano i tuoi sentimenti nei confronti di Mario, in quei giorni in cui vi eravate rincontrati? Insomma cosa provavi per lui e cosa volevi da lui?
– Cazzo io ero ancora innamorata! lui era l’uomo che volevo come compagno della mia vita, l’uomo con cui dividere la vita ed il destino e avere figli, se solo avessi potuto averli.
– Non potevi?!
– Credevo di no, soffrivo di una forte endometriosi, che secondo il mio ginecologo non mi avrebbe permesso di rimanere in cinta.
– Ah! Ma questo centra qualcosa con quello che stiamo cercando di comprendere?
– beh sì, perché, anche se sembrava che non potesse accadere, io rimango in cinta, proprio la sera che gli dichiaro tutto il mio amore, vecchio, che non ho mai dismesso, e nuovo, che sento rinascere in me. Così gli dichiaro di voler provare a costruire insieme, un rapporto “nuovo”, adulto e di unione.
Lui si commuove e mi dici che sì, anche lui lo vuole.
Sono al settimo cielo per questa nuova opportunità e, dopo la sua commozione e l’intento comune di “riprovarci”, quella notte, concepiamo un figlio.
Lo scoprirò venti giorni dopo.
E’ un miracolo!
Pensavo di non poter aver figli e invece …!
Che proprio lui fosse il padre è, per me, la risposta a tutto e a tutti che qualcosa di grande ci univa.
Ecco, di nuovo, che vedo “Ananke” riaffacciarsi sulla scena!
Uno dei giochi mentali più subdoli in cui, una persona, spesso si intrappola è quello di spiegarsi ciò che gli sta accadendo e/o che gli è accaduto ricorrendo a rappresentazioni di quegli stessi accadimenti che non prevedono la possibilità d’essere smentite, cosicché le proprie responsabilità non possano essere tirate in ballo e nessuna prospettiva di cambiamento possa mai prendere corpo!
Cos’altro si può fare nei confronti di un “miracolo”, che accoglierlo e accettarne gli ovvi significati?!
La logica diventa inoppugnabile: se non posso avere figli, ma con lui rimango in cinta, allora lui è l’uomo del Signore, mandato a me perché il mio destino di donna, madre, amante, compagna possa compiersi.
“Cazzo”! Adesso lo dico io.
Di questo mio vedere Ananke in scena, se verrà il caso, ne parlerò con Agnese.
Le dichiarerò quanto io mi insospettisca e provi fastidio nel vederla interpretare quello che le è accaduto come dimostrazione di una incontrovertibile volontà superiore che, guarda caso, coincide perfettamente con ciò che lei stessa desiderava accadesse.
Ma, in questo momento, la mia strategia è quella di fare yogging con Agnese, cioè di concentrarmi, insieme a lei, sui diversi contenuti di sentimento e pensiero compresi e mischiati nel suo racconto di quanto ha vissuto con Mario.
Lo scopo è ancora quello di disaggregare pensieri e sentimenti, per poterne vedere meglio le relative reciproche influenze e i correlati comportamentali.
– Ok Agnese. Rimani in cinta e pensi che questa sia la definitiva conferma del fatto che dovete e potete stare insieme?
– Sì. Proprio così. Purtroppo però, questo magico momento che stavo inaspettatamente vivendo, non è condiviso.
Quell’uomo che conoscevo da quando avevo quindici anni e con cui pensavo di aver costruito un legame profondo, è rimasto paralizzato di fronte alla notizia ed è fuggito da ogni responsabilità.
“Tu sei magica” mi dice alla notizia, “io non ho scelto di diventare padre, il tuo bisogno di genitorialità è talmente forte che ti sei guarita e sei rimasta incinta. Io non ho scelto di diventare padre, non lo posso fare, non lo voglio fare. Non intendo avere a che fare con pannolini, pianti e quant’altro richieda l’avere un bambino piccolo. Sono impegnato nel mio lavoro, mia madre è anziana e io ho 54 anni”.
Ascolto le sue parole strampalate e gli dico che comprendo e rispetto la sua decisione, aggiungo solo che “la vita è quello che ci accade mentre siamo impegnati a progettare tutto il resto”.
Dal racconto di Agnese, e dai modi in cui lo espone, tanti sono gli elementi di senso, significato e sentimento, cui un counselor potrebbe “agganciarsi” e, da quello, portare avanti il proprio fare counseling, caratterizzandone la particolarità (1000 counselor diversi, 1000 counseling diversi!).
Io stesso avevo l’imbarazzo della scelta.
Forse avrei richiamato il “miracoloso” evento della sua gravidanza come occasione per invitarla all’ascolto, chiedendole come l’avesse fatta stare il suo rimanere in cinta, cosa avesse provato.
Le avrei fatto fare la spola tra il suo pensare che quello fosse un segno del destino e cosa questo producesse nel suo “sentire”.
Avrei voluto chiederle: “ok il destino e tutto quello che ci dice la vita, ma tu, quando hai scoperto di aspettare un bambino, come ti sei sentita? Cosa hai provato? Quali emozioni? Quali sentimenti? Quali sensazioni?”
Ma Agnese corre inarrestabile nel racconto della sua storia; una storia in cui tutto è già chiaro e tutto ha un suo perché: lui rimane paralizzato, fugge dalle sue responsabilità, dice cose strampalate, preferisce “progettare tutto il resto”, invece di dar valore a quello che sta accadendo, come invece fa lei!
E allora, visto che il mio fare yogging con lei consiste sì nel guidarla a fare la spola tra quello che sente e quello che pensa, ma si articola sullo stare in relazione con lei, se lei “precipita” nella narrazione della sua storia, io “precipito” con lei.
– Agnese chissà come ti sei sentita nello scoprire che quello che stavi vivendo come un idillio romantico di straordinaria potenza e intensità, addirittura voluto dal destino, si trasformava nella fuga di Mario di fronte ad un evento così miracoloso come quello della tua maternità?!
Agnese si irrigidisce con uno scatto che le raddrizza la schiena, si rimpettisce emergendo dalla poltrona, su cui era sprofondata; mi guarda con uno sguardo misto di tristezza e di rabbia, mentre con le mani stringe i braccioli della poltrona su cui punta i gomiti. E mi inonda di un fiume di parole.
Ma, prima di riportarne lo scorrere, voglio riproporre la visione della “relazione di counseling”, che accompagna la redazione del presente manuale, che mi sembra ben inquadri quanto stia accadendo tra me ed Agnese: “La relazione di counseling è quella relazione che sostiene le possibilità di un sano confronto, counselor-cliente, volto a far scoprire al cliente cosa può fare, e come, di più utile e funzionale alla soddisfazione dei propri bisogni; “un qualcosa e un come” che non è dato aprioristicamente, come verità scientifica (o esoterica) di cui il counselor è depositario e portatore; un “qualcosa e un come” che emerge, nella stessa relazione di counseling, dal modo in cui stanno insieme counselor e cliente e dal confronto sul valore ed il senso delle esperienze vissute nella stessa relazione di counseling, sia dal cliente e sia dal counselor”.
Ma torniamo ad Agnese.
– Sono rimasta scioccata e stordita. Mi sono subito resa conto che sarebbe stata dura, ma non si trattava più solo di me o di noi; adesso quella nuova vita era diventata più importante di me e di noi; dovevo occuparmi prima della vita che sarebbe arrivata e poi del resto.
Non riuscivo a far altro che pensare che, se la vita ci aveva messo di fronte ad un’esperienza così forte, era perché c’era una ragione per entrambi ed era necessario assumersi le proprie responsabilità, prenderne coscienza. Ma lui vigliaccamente s’era tirato indietro. Io non potevo farlo. Io non potevo tirarmi indietro. La mia decisione non poteva che essere quella di portare a termine la gravidanza, anche da sola, affidandomi alla vita. Un figlio in “quelle condizioni” non l’avrei mai voluto, anche se l’avere un figlio era un mio grande desiderio … Così, mi sono ritrovata completamente sola, la mia famiglia e miei amici mi sono stati vicini come hanno potuto, ma io sono piombata in un vortice di emozioni che mi travolgevano. Paura, peso della grande responsabilità, incertezza sul futuro…
Agnese non ce la fa a stare col suo sentire; impetuosamente porta avanti il suo racconto.
– fino a quando, una sera, mossa da un senso di diffuso malessere, che mi allarmava, decido di andare in ospedale e lì la catastrofe si compie: il mio bambino era morto da un paio di settimane ed io non m’ero accorta di nulla, non avevo sentito niente che mi annunciasse una simile tragedia ….
Rientro a casa, sola. Tutto era finito. Il mondo mi crollava addosso. Ero senza forze.
Una cosa però mi è chiara: non me la sento di fare quanto mi avevano prescritto … farmaci, raschiamento, farmaci.
Non sono ancora pronta a separarmi da quello che è rimasto dentro di me.
Decido di affidarmi alla natura. Saprà bene lei cosa fare.
E infatti la natura fa il suo corso: il mio corpo reagisce ed abortisco spontaneamente.
Sono a casa dei miei genitori.
E’ stato terribile, devastante e doloroso.
La mia mente viaggia ed io mi sento straziata, svuotata, persa.
Mi sento male, penso di non essere stata abbastanza attenta, che ho pensato più a quello che mi stava capitando, allo strazio d’essere sola, che ad amare quella vita. Penso di non aver saputo proteggere il mio bambino, che lui o lei ha sentito tutta la mia tensione e paura e per questo è morto.
Non sono stata abbastanza capace di amare e proteggere il mio bambino.
Mi sento in colpa.
Come posso non farmi un’idea di quanto Agnese abbia fatto e stia continuando a fare?
Come posso non accorgermi di quanto Agnese gestisca il proprio travaglio emotivo, complicandone gli effetti, cercando di imprigionarlo in castelli di pensieri, i cui mattoni sono:
- il suo interpretare tutto ciò che le capita, di bello e da lei stessa desiderato, come voluto dalla vita e
- il suo giudicare tutto ciò che le va storto o come colpa di Mario, che si dimostra immaturo, irresponsabile ed incapace di adempiere ai compiti che la vita gli presenta, o come colpa di se stessa, che si fa vincere dalle proprie paure e dal proprio dolore, invece di amare e proteggere il proprio bambino?
Insomma, il problema è che, prima Mario e poi lei, non sono stati all’altezza di quanto la vita aveva magicamente loro donato.
Che questo sia uno dei sunti giudicanti predominanti nel suo modo di stare con quanto le è accaduto, non vedo come possa essere messo in discussione.
Che il giudicare sia un’attività predominante nel suo modo di rapportarsi con quanto le capita, anche questo mi sembra fin troppo evidente.
Che il giudicare sia un’attività mentale cui tutti noi ricorriamo a ogni piè sospinto e che questo abbia come effetto il mettere la sordina a quanto stiamo sentendo è un “sapere” che ogni counselor matura nel corso della propria formazione.
Il nostro fare yogging, come struttura portante delle nostre relazioni di counseling, è una strategia volta a togliere tale sordina, fiduciosi che, così facendo, possano aprirsi nuovi scenari di pensieri e comportamenti, che daranno la stura a nuovi sentimenti, capaci di delineare e sostenere pensieri ed azioni in grado di produrre esiti di benessere, invece che di tormento, disagio e sofferenza.
Ma Agnese è un osso duro. Fare yogging con lei è un’impresa.
Agnese ha una storia di riscatto da raccontare, che chissà quante volte s’è già raccontata, per riuscire a reggere il peso di come s’è dovuta sentire, ed evidentemente continua a sentirsi.
Agnese è un fiume in piena.
Il suo stare rigida, diritta sulla poltrona mi dà il senso di un argine, tirato su per impedire lo straripamento di quel fiume.
Io, che sto in ascolto, faccio fatica a fare la spola tra quello che sento, stando con gli accadimenti di cui Agnese mi racconta e quanto penso, relativamente agli stessi e a quanto questi abbiano potuto rappresentare per Agnese.
Mi accorgo di quanto mi abbia spaventato sentire Agnese raccontarmi “Non me la sento di fare quanto mi avevano prescritto … farmaci, raschiamento, farmaci. Non sono ancora pronta a separarmi da quello che è rimasto dentro di me. Decido di affidarmi alla natura. Saprà bene lei cosa fare.”
Ma mi è altrettanto chiaro di non riuscire a tenere il passo necessario a fare la spola tra quanto sento e quanto la cosa mi dia da pensare, tanto è veloce il fluire del racconto di Agnese.
Figuriamoci se riesco ad aver un senso di cosa, quanto le sia capitato, abbia potuto rappresentare per Agnese.
Cos’ ha fatto Agnese, di volta in volta, di quello che le capitava?
Come ha reagito a quanto le è successo?
Vi ha, per caso, in qualche modo contributo?
E, nel caso, come ce ne possiamo accorgere?
Mi rendo conto che, per me, più di “Ananke”, ha valore la visione esistenzialistica della vita, quella che punta l’attenzione sui modi in cui noi ci rapportiamo con ciò che accade, cioè sulla loro soggettiva “fenomenologia”, sul modo in cui un fenomeno diventa esperienza per chi lo sta vivendo o, anche solo, osservando: l’esperienza di chi l’ha vissuta, unica e particolare, non generalizzabile.
Sono interessato a scoprire cosa ha provato Agnese; sono interessato a farmi dire se se ne è accorta; sono interessato ad esplorare, con lei, cosa abbia fatto di ciò che ha provato.
Sono interessato a come ha fatto a stare con quei sentimenti.
Non fatico a cogliere lo struggimento di Agnese, lo sento risuonare forte in me.
Altrettanto evidente mi appare la sua disperazione e quanta amarezza e paura debba aver provato di fronte a quel sogno infranto di un amore che finalmente si realizzava, fino a portarla ad aspettare un bambino, che poi, però, muore.
Ma la mia fatica è proprio poca, di fronte a quella di Agnese, che proprio non ce la fa a smettere di parlare.
Vorrei interromperla, ma ho netta l’impressione che sarebbe inutile; tanto non ascolterebbe; lei ha bisogno di chetare l’agitazione di cui è preda e il parlare senza soluzioni di continuità, forse, può aiutarla a tale bisogna.
Quello che rende evidente a me e che con quel suo parlare vorticosamente si aiuta a resistere alla durezza e al dolore della sua esistenza:
– Arriva un sogno in mio aiuto, dopo giorni di dolore e pianti ininterrotti.
Sogno di avere un bambino, appena nato, lo guardo nella culla, con amore, all’improvviso anche lui mi guarda, mi fissa negli occhi e mi dice di darlo a un’altra donna, ma di non dimenticarlo, mi implora di non disperdere quello che lui rappresenta per me.
Immediatamente si presenta una coppia, che mi sembrano marito e moglie.
Io prendo il bambino dalla culla, lo stringo forte a me e, subito dopo, lo consegno a quella donna.
Dopo quel sogno, qualcosa dentro di me cambia, non sento più quel gran dolore, perché ho deciso che posso usare quello che mi è successo come un’altra occasione, che la vita mi ha dato, per andare avanti, senza perdere le mie possibilità di viverla, riuscendo ad ottenere ciò che voglio, ciò di cui ho bisogno.
Ho già detto vero che Agnese ha una storia di riscatto da raccontare, che chissà quante volte s’è già raccontata per riuscire a reggere il peso di come s’è dovuta sentire, ed evidentemente continua a sentirsi?
– Ho scoperto che posso avere figli, e questo mi dà una sensazione di potere e di amore, che non mi abbandona …
Anche se l’uomo che amavo e che pensavo mi fosse “almeno” amico, si smaschera per quello che è.
Si rivela immaturo affettivamente, egoista, insensibile, disumano (a proposito di sunti giudicanti!).
Incapace di assumersi le proprie responsabilità.
Pensa che è arrivato a dirmi che lui non centrava con quello che era successo, che era una cosa che avevo voluto io sola e che solo io avevo fatto accadere.
Mi sento liberata da quell’amore “malato”, questo bambino era arrivato come messaggero per me e io non potevo, non posso, sprecare quella vita piangendomi addosso ed essere triste.
Dovevo reagire, per lui e per l’importanza del significato che, comunque, nonostante lui non fosse nato, aveva portato con sé.
A volte ho la sensazione d’essermi sentita meglio troppo presto e vivo sensi di colpa per non soffrire più così fortemente.
Ma quando mi ricapita di stare male, ripenso a quel sogno e la forza che mi aveva dato e mi rialzo, riprendo a vivere.
Oggi, a distanza di un anno e poco più, quel dolore è ritornato, quel dolore è presente e penso che mi sarà impossibile dimenticare.
Custodirò questo ricordo al sicuro nel mio cuore e non potrò fare altro che considerarlo parte di me e della mia storia.
L’attesa di un figlio che s’interrompe così bruscamente, fa molto male e condiziona tutto quello che viene dopo.
Mi dico che devo solo imparare a guarire il ricordo doloroso di quest’esperienza e, come nel sogno, non disperdere il valore che, comunque e nonostante tutto, ho ricevuto dalla vita.
Quindi, Agnese sa già cosa fare per superare il proprio dolore; ce lo dice, dicendoselo:
“Mi dico che devo solo imparare a guarire il ricordo doloroso di quest’esperienza e, come nel sogno, non disperdere il valore che, comunque e nonostante tutto, ho ricevuto dalla vita.”
Che Agnese sia alle prese con quell’interruzione di contatto di consapevolezza che in Gestalt viene definita “egotismo” (vedi cap. 6.5 “La teoria della Gestalt. Riferimento d’eccellenza per il counseling), a me appare abbondantemente evidente.
Che ogni interruzione di contatto di consapevolezza serva a evitare il contatto con sentimenti che non riusciamo a sopportare, ovvero ci immaginiamo di non poter sopportare, è cosa necessaria da sapere, per chi voglia fare counseling.
Comunque sia, fare yogging con Agnese, per me, ha il valore strategico di animare il campo di consapevolezza in cui poterci muovere, affinché Agnese possa, con questo nostro “stare insieme”, in questa nostra relazione di counseling, vivere un’esperienza di accrescimento delle proprie capacità di gestione delle proprie difficoltà.
Finora Agnese, per farsi una ragione di quanto le è successo, si è affidata alle sue funzioni mentali di giudizio, interpretazione, spiegazione, eccetera.
A queste funzioni ha aggiunto l’identificazione con credenze di valore, oserei dire, mistico-religioso.
Che tutto ciò le servisse a cercare di placare i propri tormenti emotivi ed esistenziali, a me sembrava fin troppo chiaro e ovvio.
Che, con tutto ciò, non fosse ancora riuscita ad ottenere ciò che cercava, mi sembrava altrettanto chiaro e ovvio.
Che fosse possibile aiutarla confrontandola, dialetticamente, con visioni, ragionamenti e argomentazioni avverse alle sue argomentazioni, ero certo fosse un’ipotesi di lavoro che non avrebbe portato a nulla (Agnese si presentava come saldamente “arroccata” sulle proprie visioni e non dava alcun segno di potersi/volersi staccare da quelle).
Anche a questo serve il nostro fare yogging.
Serve a spostarsi su di un terreno, quello del sentire, in cui è più facile fare esperienze di cambiamento.
Si sa che possiamo essere irremovibili al cambiamento di pensiero, ma se ci rivolgiamo, con curiosità e pazienza, al nostro sentire, mettendoci ad ascoltare … presto o tardi qualcosa potrebbe cambiare!
Soprattutto se, in questa pratica, siamo aiutati da chi, già, di questa pratica, ha esperienza.
Fare yogging serve a migliorare la nostra consapevolezza emotiva.
Col mio farlo con Agnese, confidavo sul fatto che, aiutandola a migliorare la propria consapevolezza emotiva, relativamente a quanto aveva provato, a quanto continuasse a provare e a quanto e a come tutto ciò fosse collegato al proprio modo di pensare e di agire, Agnese avrebbe abbandonato l’infausto pregiudizio che “capire” i perché di quanto le era accaduto, posizionandoli esclusivamente sul piano mentale di credenze mistiche e/o dei negativi giudizi su Mario e su se stessa, potesse concretamente servirle a farla stare meglio.
Per proporre, però, ad Agnese, qualcosa che lei potesse accettare di fare, dovevo aspettare che il suo impeto narrativo si placasse.
Come avevo immaginato, adesso che Agnese “aveva vuotato il sacco”, ora che aveva raccontato la sua storia, poteva lasciarsi andare sulla poltrona; mollare la propria postura di argine difensivo di chissà quali timori.
Chi ha esperienza di ascolto sa che, ad ascoltarsi, ciò che sentiamo diventa accettabile.
Lo diventa perché assume contorni definiti, rendendo, così, riconoscibile ciò che ci spaventa.
Noi tutti sappiamo quanto ci possa spaventare ciò che non conosciamo.
Ma ciò che conosciamo possiamo “incontrarlo” e, così, superare la paura che ne abbiamo.
Chi ha esperienza di ascolto, nei termini cui qui ci riferiamo, cioè dell’ascolto di sé (ascolto “propriocettivo”), sa che questo tipo di ascolto ci permette di “sentire” ciò che finora abbiamo evitato di sentire, in preda alla nostra paura di non poterlo sopportare (rabbia, dolore, impotenza, cos’altro?).
Ma, quando riusciamo finalmente a “sentire” ciò che abbiamo instancabilmente evitato, allora possiamo cominciare ad accettarlo: i “mostri” che evitavamo assumono forma e contenuto e questo ci permette di fronteggiarli.
Scopriamo che è proprio vero che spesso “ dipingiamo il diavolo più nero di quanto sia”.
Scopriamo che possiamo smettere di farlo.
Di tutto ciò mi ripromettevo di far fare esperienza ad Agnese, nella nostra relazione di counseling, ma, ritrovandoci alla fine della nostra prima sessione, per ora non potevo far altro che “accontentarmi” del fatto che, raccontandomi la propria “storia”, Agnese avesse placato i suoi subbugli emotivi, che io avevo visto di rabbia, tristezza, delusione, paura, sofferenza, ansia e chissà cos’altro.
Ci saremmo tornati la volta successiva.
Ora la richiamo al suo “sentire”, per farglielo riassaporare, ora, che forse, avendone placato la tempesta, può cominciare a farne un’esperienza diversa, di quella fin’ora fatta.
– Agnese, quindi, devi “solo” imparare a guarire quel ricordo e seguire le indicazioni che il tuo sogno ti ha dato. Noi però, adesso, siamo a pochi minuti dalla fine di questa nostra prima sessione di counseling. A me è servita a conoscerti meglio, a comprendere quanto ti è accaduto e ad avvicinarmi emotivamente a te. Ti voglio dire cosa ho provato a stare con te in quest’ora che sta per passare, ma prima voglio chiederti una cosa: come stai adesso?
– Mi sento svuotata. Mi rimane tanta malinconia e un po’ di speranza che le cose possano migliorare, anche se non so proprio come.
– Magari su questo “come” ci lavoriamo la prossima volta; adesso voglio darti un mio feedback. Innanzitutto, voglio dirti che mi dispiace tanto per quanto ti è accaduto. Voglio dirti anche che mi è assolutamente chiaro quanto debba essere stato difficile e doloroso per te far fronte a tutto quello che ti è successo, e non mi sorprende il fatto che tu non ci sia ancora compiutamente riuscita. Mi dà coraggio e fiducia, però, vedere in te questa volontà di ricostruzione e di ripresa in mano della tua vita. Questo mi sembra un buon auspicio, che può dare forza alla possibilità che quello che abbiamo iniziato a fare insieme porti a qualcosa di buono per te.
– Lo spero proprio. Ne ho tanto bisogno.
– Ok. Allora ci vediamo mercoledì prossimo, alla stessa ora, e andremo avanti su questa strada.
Ci salutiamo con un abbraccio.
Chiamiamo “Yogging” l’insieme di pratiche, e di attività, che, in una sessione di counseling, un counselor propone e gestisce, con lo scopo di aiutare il proprio cliente a riconoscere ciò che ha sentito, ciò che ha pensato e ciò che ha agito, nelle circostanze in cui si è ritrovato in difficoltà.
Ci interessa scoprire, insieme a lui, come ciò che ha sentito, ciò che ha pensato e ciò che ha agito, si siano reciprocamente influenzati e che esiti abbiano prodotto.
Per arrivare a tali risultati, viviamo la relazione con il nostro cliente come lo scenario nel quale rivisitare e rifare esperienza (questa volta qualitativamente diversa) di quanto, dolorosamente e/o con difficoltà, ha vissuto; lo facciamo dando valore a quanto, nel qui e ora di ogni singolo momento di ogni specifica sessione di counseling, di quel vissuto, il cliente rimette in campo.
La nostra esperienza ci dice che nel presente continua ad agire quanto è rimasto irrisolto nel nostro passato. Quindi, nel nostro presente, possiamo intervenire per produrre quei cambiamenti esistenziali che ci “sganceranno” da quel passato che, ancora, ci fa soffrire.
Tali cambiamenti esistenziali, immancabilmente, saranno segnati/influenzati da diversi contenuti e forme del nostre “sentire”, del nostro “pensare” e del nostro agire.
Il cambiamento del nostro “sentire-pensare-agire” è il risultato di un processo di consapevolezza che avviamo quando cominciamo ad aver chiaro ciò che sentiamo, ciò che pensiamo e ciò che facciamo, nonché i modi in cui tutto ciò si relaziona.
La relazione di counseling, e il fare yogging che la contraddistingue, è quanto permette, nel cliente, l’avvio di tale processo ed è quanto lo aiuta a muoversi, in sintonia, con lo stesso.
Adesso ci ritroviamo con Agnese, siamo al nostro secondo incontro, di questo percorso di counseling che abbiamo intrapreso.
– Ciao Agnese, ben venuta! Come stai?
– oggi un po’ meglio rispetto alla volta scorsa. Ero preoccupata di chissà cosa sarebbe potuto accadere. Poi, invece, è andato tutto liscio. Quindi adesso sono più tranquilla.
– ascolta Agnese, partirei col fare il punto della situazione. Abbiamo iniziato a fare counseling per cercare di fare un po’ di chiarezza su quello che ti era successo e vedere, contestualmente, se l’idea di iscriverti a una scuola di counseling fosse una buona opzione, per aiutarti a meglio gestire le difficoltà che stai vivendo, su vari fronti della tua vita. È corretto?
– sì, direi di sì, anche se adesso quello che mi preme di più risolvere è lasciarmi alle spalle quanto è accaduto e trovare il modo di ricominciare a stare bene. Mi piacerebbe trovare un uomo con cui poter stare; un uomo da amare e da cui essere amato; però un uomo che sia un uomo, non uno dei tanti “scoppiati” che puntualmente mi si propongono.
– cioè? Chi sono gli “scoppiati” che ti si propongono?
– ma … da un paio d’anni a questa parte, da quando ho lasciato il lavoro con mio padre, lavoro la sera, fino a tarda notte, in una birreria; servo ai tavoli e sto alla cassa e in birreria passa una lunga fila di gente un po’ così … ragazzi ed uomini che escono la sera per fare i cazzoni oppure ragazzi e uomini un po’ scoppiati, gente che beve, fuma o si fa delle peggio cose; peccato che poi questo è il tipo di gente con cui più ho a che fare e che si fa avanti con me, in questo periodo della mia vita … non è che abbia così tante occasioni di contatto con altre persone, in situazioni diverse.
– humm… ed è di questo che mi vuoi parlare?
– ma no! Tanto su questo non ci posso fare nulla. Vorrei capire in che modo fare la scuola con te potrebbe aiutarmi.
Ci risiamo!
Ho fatto abbondante esperienza del fatto che “capire” possa sì essere utile, ma difficilmente, da solo, ci mette in condizione di muoverci al meglio delle nostre possibilità, ottenendo ciò che vogliamo.
Perché questo accada, abbiamo bisogno di fare i conti, innanzitutto, con i nostri sentimenti e con i nostri bisogni personali, non accontentandoci di “capire” quali questi siano, ma imparando a stare in buon contatto con loro e a dare loro, di volta in volta, risposte adeguate alle circostanze.
Per questo apprendimento, capire non basta!
Quando sento qualcuno che mi dice di voler “capire” questo o quello, presupponendo che il “capirlo” sia quanto serva per, conseguentemente, compiere le scelte giuste, gestire oculatamente un problema personale e muoversi efficacemente nella propria vita, provo immancabilmente un senso di inquietudine.
Allora parto da questa mia inquietudine e la gestisco, nella relazione con Agnese.
– Ascolta Agnese, vedo che per te è tanto importante riuscire a “capire” le cose. Oggi mi dici che vuoi capire in che modo fare la scuola con me potrebbe aiutarti; la volta scorsa ci siamo lasciati che io, fra me e me, pensavo che tu pensassi d’aver “capito” tutto, di quello che t’era capitato e, però, chissà perché?!, continuavi a stare male e continuavi ad essere alle prese con problemi che non riuscivi a risolvere.
– ma certo, il fatto che io capisca i perché e i percome di quello che mi è capitato non vuol dire che io debba smettere di starci male!
– brava Agnese! È proprio questo il punto; noi, facendo counseling, invece, puntiamo al benessere delle persone e sappiamo che, in questa direzione, dare importanza prioritaria al “capire” le cose può essere, addirittura e paradossalmente, controproducente.
– si ma come si fa a non voler capire? A non dare importanza alla comprensione delle cose?
– beh… io non ho detto di non voler dare importanza alla comprensione delle cose; ho detto che facendo counseling noi puntiamo a promuovere il benessere delle persone e questo, per noi, non passa dal dare importanza prioritaria al capire. Il nostro motto è: “viene prima il sentire!”
– ah sì, anche per me è più importante “sentirle” le cose, infatti io per fare qualcosa devo “sentire” che è giusta, almeno per me.
Ed eccoci di nuovo nel bel mezzo della confusione tra cosa attenga al dominio del “sentire” e cosa, invece, riguardi il “pensare”.
Secoli di tradizione “cartesiana” non si scardinano tanto facilmente; “cogito ergo sum” è un imprinting di straordinaria potenza, che tende ad occupare tutto il senso ed il valore della nostra esistenza, con il rischio, ahinoi spesso realizzato, di confinarla sul piano del “pensare”, come se quelli del “sentire” e dell’ “agire” non fossero altrettanto (e molte volte anche di più) importanti!
Ma per noi counselor, che intendiamo il nostro fare counseling come un’attività la cui mira è lo sviluppo di consapevolezza di chi gli si rivolge, il benessere delle persone non è dato principalmente dalle loro facoltà mentali, di pensiero, ma dalla loro capacità di ben integrare ciò che sentono, ciò che pensano e ciò che fanno.
Per questo facciamo yogging con i nostri clienti.
– Agnese mi dici che, per fare una cosa, devi “sentire che sia giusta”. Hai voglia di fare un esperimento legato al tuo “sentire”, finalizzato a farti scoprire in che modo ti capita di utilizzare realmente e concretamente questo cosiddetto tuo sentire?
– cioè?! Cosa vuoi farmi fare?
– se penso al nostro incontro della volta scorsa, non ho potuto non accorgermi di quanto tempo tu sia stata con una postura rigida rigida, un po’ come quella che hai adesso, nel tuo stare seduta nella poltrona. Sono certo che questo sia in qualche modo collegato a ciò che senti, mentre la assumi. Non so quanto tu ti renda conto realmente di quello che senti, mentre sei così tutta irrigidita … ma vorrei lavorarci un po’ su, insieme a te.
– cioè?! Cosa vuoi che faccia?
– ti proporrei di riraccontarmi un pezzo della tua storia e di farlo assumendo volontariamente, coscientemente, la postura che ti ho visto tenere per quasi tutta la volta scorsa. Questa volta fallo prestando attenzione a cosa senti, mentre racconti la tua storia, cioè stai in ascolto, andando alla ricerca di ogni traccia, ogni sentore fisico di quello che senti, e intanto racconti.
Aspetta, ti aiuto.
Allora, drizzati sulla schiena tirando il petto in fuori, punta i gomiti sui braccioli e con le mani stringili, irrigidendoti tutta; adesso presta attenzione a quello che senti, a ciò che ti accorgi stia accadendo nel tuo corpo; cosa senti? Aiutati col respiro; respira immaginando di andare col respiro in ogni parte del tuo corpo, soffermati là dove senti qualcosa. Se ti può aiutare, interrompi quando vuoi il tuo racconto, chiudi gli occhi e stai qualche minuto in questa posizione, tenendo questa rigidità, ascoltati, fino a quando non ti viene voglia di riprendere il racconto. Vai avanti così, per un po’:
- assumi la postura che ti ho detto e mettiti in ascolto
- inizia a raccontare
- fermati ogni volta che credi, per concentrarti meglio su ciò che senti, sempre mantenendo quella postura
- riprendi a raccontare, fino a quando non ti fermo io.
– che pezzo di storia vuoi che ti ri-racconti?
– riparti da quando sei a casa, non ti senti bene e decidi di andare, da sola, in ospedale.
– quando poi mi dicono che il bambino è morto?
– Sì, da lì.
Agnese si impegna nell’esercitazione.
Prima di andare avanti nella esposizione di quanto avvenuto, voglio fare alcune precisazioni.
Lo yogging ha come presupposto fondamentale il sapere che quando accade qualcosa sul piano del nostro “Sentire”, (parliamo, chiaramente di emozioni/sentimenti/sensazioni) anche se non ce ne accorgiamo, qualcosa di correlato accade in ciò che pensiamo e in ciò che facciamo.
Lo stesso succede quando stiamo pensando o facendo qualcosa:
- in corrispondenza di ciò che pensiamo, qualcosa “sentiamo” e “facciamo”;
- in corrispondenza di ciò che facciamo, qualcosa “pensiamo” e “sentiamo”.
Non sempre, abbiamo coscienza delle reciproche influenze del nostro sentire, pensare e agire, e di tutti gli effetti esistenziali collegati al modo in cui permettiamo che il nostro sentire, pensare ed agire si contatti e si influenzi reciprocamente.
Più questa coscienza cresce e diventa chiara, più la nostra consapevolezza (lo spontaneo contattarsi di quanto accade nei nostri tre piani esistenziali, del sentire, del pensare e dell’agire) diventa funzionale al farci stare bene.
Proporre ad Agnese di assumere, questa volta coscientemente, una postura che lei stessa ha mostrato esserle abituale (per non dire fissa!), mentre racconta un pezzo di storia personale che tanto l’ha fatta stare male, fare il tutto stando in ascolto, ripensandosi (e quindi ritrovandosi emotivamente) in quei frangenti, è “fatto apposta” per “animare” in lei i tre piani del suo sentire-pensare-agire, dando a questi uno spessore più consistente, che più facilmente potrebbe essere riconosciuto:
- da lei stessa, col suo esplorarlo (nei termini da me propostole),
- da me stesso, confrontandola con quanto, rispecchiando il suo esperimento (riproducendolo in me stesso, immaginariamente) e osservandola nel farlo, io stesso vado scoprendo e riconoscendo.
Quanto or ora proposto possiamo vederlo come una “unità di sintesi” del mio fare yogging con Agnese.
Insomma, fare yogging vuol dire articolare varie attività, stando in ascolto propriocettivo, prestando cioè un’attiva attenzione a cosa ci capita, sul piano del sentire; vuol dire saperlo fare, in proprio, e saper aiutare il cliente a fare altrettanto, con creatività e buon senso di opportunità.
Tali attività, e la pratica di ascolto a queste associata, diventano funzionali agli sviluppi di consapevolezza ricercati in forza della messa in atto, nella relazione di counseling, delle specifiche competenze personali, che strutturano e qualificano la professionalità di un counselor:
- l’accoglienza,
- l’ascolto propriocettivo,
- l’osservazione non giudicante,
- la presenza consapevole,
- la comunicazione empatica, non violenta.
Le attività, e le pratiche di ascolto, che un counselor propone al suo cliente consistono in esercitazioni fisiche e d’immaginazione, messe in atto simboliche di gesti ed azioni, drammatizzazioni di dialoghi, sperimentazioni di stampo artistico vario (pittura, recitazione, scrittura, canto, mimo, ecc.).
Per il tramite di tali attività il counselor aiuta il proprio cliente a riconoscere ciò che sente; lo fa principalmente richiamandolo al respiro e all’ascolto propriocettivo, mentre il cliente stesso ha in corso l’attività consegnatagli; poi continua a prestare aiuto al proprio cliente confrontandolo sui sensi (nella doppia accezione del termine: di “sentimento” e di “significato”) percepiti.
Tale confronto è qualificato dalle competenze relazionali del counselor, senza le quali nessun buon risultato sarebbe possibile.
Tale confronto è animato dal rispecchiamento empatico dei “sensi” (sempre nella doppia accezione del termine) che cliente e counselor hanno, singolarmente e personalmente, contattato e riconosciuto.
Tale confronto è ciò che arricchisce la coscienza e la conoscenza dei propri “sensi”, sia per il cliente, sia per il counselor!
Le attività e le pratiche di ascolto, che proponiamo al cliente, permettono al cliente di “rivisitare” i contenuti del proprio “sentire”, “pensare” e “agire”, fino alla maturazione, esperienziale, della propria capacità di produrre, negli stessi, i miglioramenti che sta ricercando.
Il cliente svilupperà così le proprie possibilità di “sentirsi” meglio, pensando e agendo meglio, cioè in modo più funzionale alla soluzione dei propri problemi esistenziali, alias alla soddisfazione dei propri bisogni.
Delle attività e delle pratiche di ascolto che possiamo organizzare, per fare yogging, proponiamo alcuni esempi nel capitolo che segue, del presente “Manuale per la Formazione IN Counseling”, che stai leggendo.
Come già anticipato, possono essere mutuate dal teatro e da ogni altra forma di espressione artistica.
Possono riguardare le più disparate pratiche di meditazione e tecniche di respiro.
Possono riguardare la riproposizione, attenta e cosciente, dei più ordinari gesti-azioni collegati al nostro vivere.
Tutte hanno lo scopo di fornire “materia” d’esplorazione e di risperimentazione di quanto, in qualche significativo modo, sia collegato al quadro esistenziale problematico che il cliente sta vivendo e vuole superare.
Il confronto dialettico, counselor-cliente, che il counselor gestisce su tale “materia” è quanto permette l’elaborazione e la buona “chiusura” dell’esperienza che il cliente matura nel suo stare nelle, e partecipare alla, relazione di counseling.
Quanto segue può essere visto come esempio.
– Agnese allora sei pronta ad iniziare?
– sì dai…
Agnese assume la postura che le ho richiesto, s’irrigidisce tutta, sembra iniziare a parlare, ma si interrompe più volte, prima di farlo.
Adesso che parla, che racconta quanto le è successo quel giorno, in ospedale, non riesce ad arrivare a dirmi cosa le ha detto la ginecologa che l’ha visitata.
– No, così non ce la faccio a raccontare … se mi ascolto, come mi hai detto tu, stando tutta rigida, non riesco a parlare, mi si blocca il respiro..
Quindi, la volta scorsa, Agnese parlava senza ascoltarsi. Un po’ come facciamo noi tutti: parliamo, pensiamo, facciamo, non ci ascoltiamo.
– lo vedo … che sei tutta affannata. Facciamo una cosa, fai tre bei respiri, lunghi … adesso mi dici cosa ti è successo, in quei momenti in cui hai provato a fare quello che ti ho chiesto?
– Beh… innanzitutto non riuscivo a prendere fiato per parlare. Questo fatto che dovevo stare rigida, me lo rendeva più difficile, così mollavo di farlo … ma, appena lo facevo, sentivo un doloroso senso di vuoto allo stomaco.
– Allora la tua rigidità potrebbe servirti a non sentire questo “doloroso senso di vuoto allo stomaco”?!
Agnese mi guarda trattenendo il respiro.
La fluidità è del respiro, che s’irradia, come il sangue e nel sangue, in tutto il corpo, arieggiando la mente, che fresca lascia correre sentimenti ed emozioni.
Il corpo è rigido quando temiamo cosa potremmo sentire e ci avvitiamo nei nostri pensieri.
La rigidità, cosi, trattiene ogni emozione e sopprime i sentimenti, perché nulla s’abbia a sentire.
La rigidità, così, fissa i nostri pensieri, perché altro non si possa scoprire.
– Respira Agnese e ascoltati. Cosa provi? Cosa ti succede?
– Sono stranita. Non so cosa pensare.
– Ok … approfittane allora … lascia stare il pensare e concentrati sul cosa senti. Come ti fa sentire questo mio richiamarti alla possibilità che il tuo stare rigida ti serva a non sentire quel “doloroso senso di vuoto allo stomaco”?
– Mi fa sentire fregata!
Sentirsi fregati è un cortocircuito semantico. Mischia il giudizio d’essere fregati con il relativo stato d’animo, che potrebbe facilmente essere di rabbia, delusione, dispiacere, paura, avvilimento, ecc.
Ma è proprio il giudicarsi fregati (senza rendersene conto) che diminuisce di gran lunga la possibilità di trovare rimedio allo stato d’animo che gli si accompagna.
Pensare di sentirsi fregati non offre alcuna via d’espressione e d’uscita ai sentimenti che il “sentirsi fregati” comporta; perché ci tiene nel dominio del “pensare”, che può, sì, portarci ad individuare il da farsi per stare meglio, ma non ci rende capaci di metterlo in pratica e farlo funzionare (ci manca il supporto emotivo).
Quando riusciamo a districare, individuandoli nella loro specifica identità e differenza, gli elementi di giudizio e quelli di sentimento, invece, creiamo le condizioni che ci apriranno una prospettiva d’espressione e d’uscita da quei sentimenti, che il “sentirsi fregati” comporta. Se e quando questo accade, il nostro stato d’animo cambia e questo favorisce un cambiamento del nostro pensare e del nostro agire, capace di avviare il cambiamento di cui abbiamo bisogno.
– Ok Agnese … e questo tuo sentirti fregata, concretamente, cosa vuol dire per te? Cioè, se volessimo dare un nome ai sentimenti che provi, con questo tuo sentirti fregata, quali sentimenti riconosceresti?
– Sconfitta, vinta, mi sentivo così!
– Agnese siamo punto e a capo! Quello che tu riferisci come un sentire io non riesco a distinguerlo dal tuo giudicare cosa avesse comportato per te quello che era successo. Provo a spiegarmi così: io divento te ed esprimo in questi termini quello che mi è capitato, poi tu mi dici se ti ci ritrovi:
“Pensavo che quello che m’era capitato fosse una fregatura bella e buona, tutto quello che volevo, e che mi sembrava si stesse realizzando, era perso, non ce l’avevo più; così mi sentivo profondamente abbattuta, delusa, triste; avevo paura di non farcela a sopravvivere; sentivo un forte senso di vuoto nello stomaco, che mi faceva stare malissimo, come se quel vuoto spingesse le pareti interne della mia pancia per allargarsi all’infinito; cosa che mi spaventava e che non potevo permettere, così mi irrigidivo e contenevo quel senso di vuoto, fino a schiacciarlo e ad annullarlo. Ma questo, anche se mi serviva a non sentire il dolore, o comunque a diminuirlo fino a renderlo accettabile, mi lasciava comunque con quel senso d’essere stata fregata, dalla vita, da quell’uomo, un po’ da tutti e questo mi faceva pensare d’essere stata sconfitta e vinta.
– Sì, Domenico. Descrivi bene come mi sentivo. Vuoi dirmi che sentirmi fregata, vinta, sconfitta, è il mio modo di dire che mi sentivo abbattuta, spaventata, delusa e con quel gran senso, doloroso, di vuoto nella pancia?
– Sì! Anche se manca ancora il riconoscimento di quanto le parole “fregata”, “sconfitta”, “vinta” siano i termini con cui ti caratterizzi, in quella situazione; in altre parole: siano i termini che utilizzi per dar forma e contenuto a come ti giudicavi. Questo puoi riconoscerlo?
Agnese ci sta un po’ su a pensare.
– Cioè vuoi farmi capire che io mi giudicavo fregata, sconfitta, vinta e questo influenzava il modo in cui mi sentivo?
– Più che fartelo capire, che questa è la parte più facile, vorrei farti sentire quel senso di vuoto doloroso nella pancia, mentre ti giudichi fregata, sconfitta e vinta. Poi mi piacerebbe farti sentire anche altro. Ma questo lo vediamo poi.
– Domenico non ce n’è bisogno, ora che mi ci stai riportando, quel senso di vuoto doloroso nella pancia mi è fin troppo chiaro, lo risento in continuazione ogni volta che ripenso a quello che mi è capitato.
– E cosa ti aspetti di sentire fino a quando continuerai a giudicarti fregata, sconfitta e vinta?!
– Ma perché? forse qualcuno potrebbe dire che quello che mi è successo non sia stata una fregatura e che questo non abbia comportato una mia sconfitta?!
C’è un tempo per ogni cosa e, se azzecchiamo questo tempo, quello che otteniamo è buono.
Questo è il tempo del confronto logico-razionale con Agnese, su quanto le è accaduto.
Adesso questo confronto può funzionare, perché è Agnese a richiederlo e a farlo in un momento in cui l’avere riconosciuto le proprie contaminazioni di pensiero e sentimento le rendono più accettabile il suo dolore e questo, spontaneamente, lo diminuisce.
– Io, ad esempio, non considero una fregatura quello che ti è successo, né ti considero vinta o sconfitta dalla vita. Ti vedo qui bella e bellicosa, alla ricerca di una tua rivincita, certo avrai perso una battaglia, ma la guerra, anche se è brutta questa metafora, sei ancora qui a giocartela, quindi di che sconfitta parliamo?! Dov’è che sei vinta e da cosa?! Finché hai forze e voglia per giocartela la vita, come puoi pensare queste cose?! E poi, circa la fregatura, sei sicura che ti convenga pensarti fregata perché una cosa, per quanto importante, ti è andata storta?! Siamo fregati quando qualcuno, intenzionalmente e artatamente, ci raggira per ottenere quello che vuole da noi, anche se noi non vogliamo darglielo e a me non sembra che le cose siano andate così, nel tuo caso.
Questo mio confrontarla è un atto relazionale, vero, pensato e sentito (nel senso che è da me praticato con piena coscienza dei sentimenti provati, dei valori culturali in ballo, dei miei pensieri e di ciò che voglio ottenere). È, quindi, un fatto dialogico-processuale genuino, che sostiene il valore della relazione counselor-cliente e ne valorizza le potenzialità esperienziali (le sue possibilità di tradursi in esperienze in grado di far crescere chi quella stessa relazione sta vivendo).
Se c’è una qualità che definisce la relazione di counseling è l’autenticità dell’operato del counselor, che partecipa alla relazione con pieno coinvolgimento emotivo-affettivo e piena assunzione della propria responsabilità di stare nella, e gestire la, relazione col proprio cliente affinché questa possa essere per il cliente un campo d’esperienze vere e concrete, dalle quali apprendere nuovi e più funzionali modi di gestire la propria esistenza, traendone migliori benefici.
Agnese ammutolisce, guardandomi pensierosa.
– Agnese … ti vedo pensierosa. Posso chiederti di lasciar andare i pensieri e concentrarti su quello che senti? Se ti metti in ascolto, adesso, dopo queste mie parole, come ti senti?
– Provo un misto di sorpresa, ma anche un senso d’incoraggiamento, che mi fa bene, mi dà speranza. Quasi non sento più quel vuoto doloroso alla pancia. Grazie Domenico. Mi stai dando coraggio.
– Agnese, apprezzo i tuoi ringraziamenti; mi fa piacere sentirti dire come ti senti e mi piacerebbe ancor più se il coraggio che ti ritrovi lo riconoscessi come un qualcosa di tuo, che si attiva in te quando dai più valore a quello che senti, ben distinguendolo da quello che pensi, in modo da dare più coerenza ed adeguatezza ai tuoi pensieri, che così ti guideranno verso comportamenti migliori . Quel coraggio non posso dartelo io. Io posso aiutarti a tirarlo fuori, solo perché già ce l’hai dentro di te. Più bello sarà quando avrai imparato a farlo da sola, a tirare fuori il tuo coraggio senza bisogno che qualcuno ti aiuti.
– E tu questo puoi insegnarmelo?!
– Agnese, quello che io posso fare per te sta tutto in quello che io posso fare con te! In questo consiste il counseling, nel fare delle cose insieme che servono a te (al cliente) come esperienza dalla quale poter apprendere quello che ti serve per stare meglio, per meglio affrontare i casini che stai vivendo, anche se li stai vivendo pensando che dipendano, direttamente o indirettamente, da quello che ti è successo in un passato, vicino o lontano, o da quello che ti hanno fatto gli altri. Insomma, più che quello che posso insegnarti, qui c’è in ballo quello che tu puoi imparare, per aiutarti a stare sempre meglio, riconoscendo che questo avverrà in forza di quanto saprai assumerti tu la responsabilità di apprendere quanto ti serve.
Io posso aiutarti in questa impresa.
Con Agnese abbiamo continuato a vederci, individualmente, altre due volte, poi ha preso le sue decisioni sul “che fare?” per risolvere o meglio gestire i propri problemi esistenziali (immagino sia chiaro a tutti che in ballo ci fosse proprio questo, anche se la questione veniva declinata sul piano dello scegliere se iscriversi o meno alla mia scuola di counseling).
È chiaro che, interrompendo qui la presentazione del counseling con Agnese, di tutti gli spunti, che lo stesso caso ha già evidenziato, non vedremo gli sviluppi.
Tu che leggi non averne a male, che tanto, comunque, di tutti gli spunti possibili da sviluppare, avresti visto solo quelli di cui io ho saputo accorgermi, che sono certo poca cosa, rispetto alla loro effettiva quantità e qualità!
La relazione di counseling ha questo pregio: non ha bisogno di sviscerare tutto per produrre i suoi benefici effetti!
Mi fermo qui perché, per quanto riguarda le ragioni per cui ho qui presentato questo pezzo di storia personale di Agnese, ritengo, per ora, di averle soddisfatte.
Mi riproponevo di mettere sul tavolo del materiale che potesse servire a presentare, a mo’ di esempio, cosa fosse e cosa volesse dire “fare yogging”, e mi sembra di averlo fatto.
Per questo, adesso lo posso dichiarare:
Agnese è un personaggio inventato, ma assolutamente verosimile.
La sua costruzione e tutto ciò che qui ho raccontato, grazie a lei, è una rielaborazione creativa di fatti e situazioni che, nel corso della mia carriera di counselor, ho incontrato e gestito, proprio così, come qui presentato.
Agnese mi è servita da “testimonial” di un caso di counseling fatto facendo yogging, per presentarne gli aspetti salienti.
Certo mille altre “cose” potrebbero essere dette, presentate, fatte e analizzate, relativamente alla presentazione dello yogging, del cosa sia, del come si faccia.
A tal proposito, nel capitolo che segue (del presente “Manuale per la Formazione IN Counseling”), riprenderemo il discorso.
Adesso preferisco concludere, invitando alla riflessione su alcune “massime”, che considero di particolare valore, che questo “caso” di Agnese propone, sia in “materia” di counseling, sia in “materia” di yogging, e che qui elenco:
- il counseling è una relazione professionale che aiuta il cliente a migliorare il proprio modo di gestire ciò che lo sta mettendo in difficoltà;
- la forza di questo aiuto è dato dalla qualità di questa “relazione di counseling”;
- fermo restando il fatto che il counselor agisce in funzione e in risposta di quanto il cliente propone e che, quindi, anche il cliente ha proprie specifiche responsabilità relativamente alla qualità e agli esiti della relazione di counseling stessa, non possiamo non riconoscere il fatto che, principalmente, la qualità della relazione di counseling sia funzione dell’operato del counselor, cioè del suo modo di stare nella relazione di counseling e di gestirla;
- la qualità della relazione di counseling è data, principalmente, dal suo funzionare come leva di attivazione e sviluppo, ad hoc, dei processi di consapevolezza necessari affinché il cliente possa far fronte alle proprie difficoltà;
- la relazione di counseling assolve tale funzione “levatrice” grazie al proprio incedere processuale, determinato, principalmente, dalla qualità dell’ascolto, dell’empatia, delle competenze dialogico-processuali del counselor;
- particolare rilievo assume quindi la “soggettività” del counselor, che, di volta in volta e responsabilmente, sceglie di seguire una “figura” (vedi il capitolo sulla Gestalt) piuttosto che un’altra, nel fluire della relazione diaologico-processuale col proprio cliente; relazione di volta in volta animata da svariate e differenti componenti emotive, sensoriali, mentali, comportamentali, di cui lui stesso counselor, non può che avere parziale e soggettiva cognizione;
- anche per questo, i contenuti e gli accadimenti di ogni sessione di counseling sono imprevedibili e non possono che differenziarsi a seconda dei suoi attori, delle circostanze e dei momenti in cui vengono svolte (insomma: 1000 counselor diversi, 1000 counseling diversi! 1000 momenti diversi, 1000 counseling diversi, anche dello stesso counselor!);
- ma, in prima istanza, l’imprevedibilità dei contenuti e degli accadimenti di una sessione di counseling, dipende dalla sua natura processuale: se non è un processo non è una relazione di counseling!
- il processo, della relazione di counseling, è una successione di accadimenti tra loro collegati, non preordinata, ma funzione di come questi si sviluppano, dato il particolare modo di stare e di agire del counselor, nella relazione di counseling; particolare modo di stare e di agire che, a sua volta, è funzione della soggettività del counselor, quindi diverso da un counselor ad un altro;
- fondamentale è la responsabilità del counselor circa il proprio operato, perché questo è da considerarsi come la leva determinante dell’incedere dello sviluppo processuale della relazione di counseling e, con questo, dei suoi esiti, relativamente allo sviluppo degli stati di consapevolezza del cliente;
- per questa ragione fondamentale è la “presenza consapevole” del counselor, sulla quale lo stesso si appoggia per determinare forme e contenuti del proprio fare yogging con il cliente;
- a fondamento del nostro fare yogging risiedono le seguenti, particolari, istanze:
- consideriamo la nostra esistenza come “contenuta” in una sfera personale-tridimensionale, in cui ad ogni cambiamento avvenente in una delle dimensioni, dell’ “agire”, del “pensare”, del “sentire”, corrispondono dei cambiamenti in ciascuna delle altre due;
- alla base di ogni nostra difficoltà esistenziale, che non riusciamo a superare, risiede una particolare configurazione (alias, una particolare gestalt) di relazioni/contatti tra le nostre tre dimensioni del “sentire”, dell’ “agire”, del “pensare”; tale configurazione alimenta le nostre difficoltà esistenziali e ne ostacola il superamento;
- possiamo produrre un cambiamento/miglioramento nella nostra esistenza, intervenendo su questa configurazione, cambiandola, in modo tale da ri-stabilire un contatto funzionale, adeguato, tra le tre dimensioni in configurazione;
- per riuscirci, diventa indispensabile rendere il più evidente possibile ciò che accade in ciascuna delle nostre tre dimensioni, al fine di scoprire dove e come intervenire;
- quanto più riusciamo a rendere evidente lo stato delle cose riguardante ciò che sentiamo, ciò che facciamo, ciò che pensiamo, tanto più riusciremo a produrre il cambiamento di cui abbiamo bisogno per stare meglio, regolando più adeguatamente le relazioni/contatto di questa configurazione.
- fare yogging ha questo scopo: animare la scena dei sentimenti-pensieri-azioni, che occupano le vicende su cui stiamo “lavorando”.
- Facciamo yogging ogni qual volta ci concentriamo, volutamente, sul nostro “sentire”, per usarlo come base d’appoggio e di orientamento dei nostri pensieri e delle nostre azioni.
- La concentrazione sul nostro “sentire” equivale al mettersi in ascolto di ciò che sentiamo, concentrandoci sulla percezione di ogni singola sensazione fisica che ci accorgiamo di star provando.
- Per meglio ascoltare il nostro “Sentire”, lo colleghiamo al “Pensare” e all’ “Agire” su cui stiamo lavorando, ricorrendo, ad hoc, alle più disparate forme di messa in atto di quello stesso “Pensare” ed “Agire”; questo facilità il nostro ascoltare, perché amplifica i moti del “Sentire”; in questo consiste il fare yogging: ci inventiamo e mettiamo in atto quanto ci può servire a meglio riconoscere ciò che sentiamo-pensiamo-agiamo; questo ci aiuta a meglio muoverci tra questi piani, facendovi la spola.
- Il nostro fare yogging è molto aiutato dal nostro saper “piazzare”, ad hoc, domande quali: “Come ti senti? Cosa ti sta capitando? A cosa ti serve fare così? Quindi? Come ti fa sentire quello che ti sto dicendo/facendo? Dove senti ‘questa’ cosa? In quale parte del corpo? Se potessi scegliere liberamente, cosa sceglieresti? Cosa fai? Cosa stai facendo? Cosa senti? Qual è il tuo bisogno? Cosa vuoi? Cosa vuoi da me? Cosa eviti? Di cosa hai paura? Ecc. ecc.”
- Saper far counseling vuol dire, molto, saper aver fiducia nei processi di consapevolezza e nei loro esiti, assegnandosi esclusivamente il compito di aiutare i propri clienti ad attivarli e portarli avanti, fiduciosi che tanto basterà per permettere loro di meglio affrontare le difficoltà che stanno vivendo, fino, se possibile, a risolverle.
- Un processo di consapevolezza è una successione di accadimenti, tra di loro funzionalmente collegati, che riguardano i tre piani della nostra esistenza, quelli del: sentire, del pensare e dell’agire;
- La buona funzionalità di un processo di consapevolezza è data dal suo naturale fluire, agevolato dalla qualità del “contatto” che con esso mantiene chi lo sta vivendo.
- Come si attiva e sostiene lo sviluppo di un processo di consapevolezza? Rivolgendosi, prestando attenzione, concentrandosi su ciò che sentiamo, pensiamo, facciamo.
- Ogni volta che lo facciamo, se scopriamo qualcosa, lì può attivarsi un nostro processo di conoscenza e coscienza, relativo:
- allo stato di un nostro bisogno,
- a come ne stiamo impedendo la soddisfazione,
- a come potremmo procedere per porvi rimedio.
- Il comune denominatore di ogni difficoltà esistenziale, per chi la sta vivendo, è quello di non saper riconoscere, e/o di non saper come fare a gestire, le proprie emozioni, collegandole a più funzionali atteggiamenti mentali e comportamentali.
- La relazione di counseling, per chi ne è cliente, è un’esperienza di apprendimento di come poter meglio integrare i propri pensieri, i propri comportamenti e le proprie emozioni, in vista del miglioramento dello stato di difficoltà esistenziali che sta affrontando.
- La cosa avviene in forza del saper far “yogging” del counselor, un sapere che viene condiviso col cliente, che ne beneficia degli effetti.
- In quale modo chiamare, se non arte, il saper far leva sulle emozioni per attivare e sostenere lo sviluppo di processi di consapevolezza e di crescita personale?!
- Lo yogging è un’arte psico-fisica, che consiste nella capacità di integrare funzionalmente pensieri-sentimenti-azioni in vista del miglioramento delle capacità soggettive di far fronte alle difficoltà del vivere, piccole e grandi; un’arte il cui esercizio produce benessere. Un’arte di cui noi counselor dovremmo essere esperti, applicandola professionalmente per aiutare i nostri clienti.
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