La vecchiaia

LA VECCHIAIA

dal “Manuale per la Formazione IN Counseling”, Cap. 7.5.

Come per tutti gli altri cicli di vita, e per tutto ciò che in questo manuale è presentato, anche per la vecchiaia, il proposito che ci muove è di fornire una conoscenza di base che ci possa aiutare a fare bene il nostro lavoro di Counselor.

Le nostre conoscenze su cosa comporti o possa comportare essere vecchi, o avere a che fare con chi è vecchio, ci aiuteranno a stare meglio con, e ad aiutare chi, con la vecchiaia (propria o altrui) sta facendo i conti, magari con fatica.

Sia questi un cliente, anziano, che dovesse ritrovarsi a vivere una qualche personale difficoltà legata alla propria età, sia egli un cliente, più giovane, che, ritrovandosi in relazione (per qualsiasi ragione) con chi giovane non è più, si scoprisse in difficoltà a starci, in quella relazione, e a far fronte a ciò che questo comporta.

Come ho già scritto nel capitolo sull’infanzia, anticipando riflessioni sui cicli di vita che a questa sarebbero seguiti, la vecchiaia è l’età caratterizzata dalla necessità di accettare come si è diventati e come questo sia potuto accadere, ed è, soprattutto, l’età in cui siamo, ancora una volta, chiamati a fare, di ciò che siamo stati e di ciò che siamo diventati, il meglio possibile, per noi stessi e per gli altri, in particolare  per i nostri cari.

Io che scrivo sono ormai prossimo alla vecchiaia, forse ci sono già dentro, ma ancora non mi sento pronto a parlarne e a scriverne in prima persona.

Per questo ho chiesto a Cesi, la mia allieva counselor più anziana (over 65) e al mio supervisore Luigi Negro (Psicoterapeuta, over 75) di scriverne loro, confidando che lo avrebbero fatto con acume e delicatezza.

Così è stato, e io non posso che ringraziarli, con commozione.

E mi stupirebbe se non ti commuovessi anche Tu, ora che leggerai ciò che Cesi e Luigi scrivono sulla vecchiaia, in successione: prima Cesi, poi Luigi.

Buona lettura.

La VECCHIAIA, a cura di Cesarina Priano.

La vecchiaia mi ha colto di sorpresa. Non me l’aspettavo. Sapevo che sarebbe arrivata, prima o poi, ma chissà quando…

Il primo colpo l’ho ricevuto quando Domenico mi ha chiesto di scrivere il capitolo sulla vecchiaia, per il suo manuale di counseling. “Io?” ho pensato e qualcosa si è mosso dentro di me, subito messo da parte e neutralizzato con una battuta.

Ho accettato l’impegno e ho cominciato a leggere sull’argomento e a scrivere partendo dal punto di vista storico e antropologico.

Avevo iniziato scrivendo una frase di Solone, che rispondeva a un poeta che si augurava di morire sereno a 60 anni: “Ho 80 anni ed imparo qualcosa ogni giorno”.

Ero molto contenta di me, poi è iniziata la pandemia ed è arrivato il secondo colpo: categoria a rischio, over 65.

A quel punto mi sono fermata e ho ascoltato quello che sentivo: “Io sono vecchia”.

Sono rimasta in ascolto e sono ritornata a quando Domenico mi aveva proposto la cosa, ho srotolato il gomitolo delle emozioni che avevo provato: stizza, insofferenza, mi sono sentita in difficoltà.

Ci sono stata per settimane, tra l’altro mentre mia madre stava male e avevo paura che potesse morire.

Allora è emersa la paura, la consapevolezza che il tempo è arrivato, di essere vecchia e più vicina alla morte, cui sono stata accanto più volte in questi ultimi anni.

Sono stata ferma, mi sono lasciata attraversare dalla paura, di cui ho visto molti aspetti: la paura di assistere al decadere del corpo e al suo ammalarsi, di perdere la mia autonomia e la paura di morire, soprattutto da sola.

In quei giorni un’amica mi segnala un articolo sulla vecchiaia, lo leggo e trovo la citazione del libro di Hillman, “La forza del carattere”.

Ricordando la lettura de “Il codice dell’anima” come una fonte di conoscenza e conforto, l’ho comprato e letto e ho trovato quello che cercavo.

A un counselor, e a chiunque abbia a che fare con persone vecchie, cosa serve sapere per agire al meglio delle proprie possibilità?

Prima di tutto, conoscere bene le altre parti di questo manuale, sulle diverse età della vita, perché nella persona vecchia ci sono ancora parti dell’infante, dell’adolescente, dell’adulto.

Nella parte dedicata all’età adulta, sono descritte le caratteristiche dell’adulto consapevole, in cui i processi di ascolto e crescita sono in pieno sviluppo.

La mia esperienza con la Scuola IN Counseling mi ha reso consapevole della quantità e qualità di sospesi che esistevano dentro di me e di come questi sospesi tenevano bloccati i miei processi di cambiamento e consapevolezza.

Per esempio, quando ho lavorato sul sogno che riguardava mio papà, la parte di me che parlava e rispondeva era l’adolescente, che non era riuscita a fare pace e a lasciar andare il senso di colpa e di abbandono.

Il lavoro fatto mi ha permesso di chiudere il cerchio e di fare pace con quella parte di me stessa, ancora sospesa, che è andata a posto, grazie a un lavoro di vera e propria cucitura della ferita che quella parte di me non aveva ancora sanato. È stata un’esperienza che mi ha permesso di crescere e cambiare.

Questo mi è successo più volte, sempre a scuola, durante la mia Formazione IN Counseling; ad esempio quando “S.”, durante un lavoro di gruppo, parlando di se stessa bambina, piangeva; io ho visto nei suoi occhi la bambina trascurata e, dopo averla abbracciata e accolta, durante la raccolta dei feedback, lei ha raccontato di aver sentito un abbraccio materno; io avevo visto una bambina che le dava la mano e l’accompagnava. Avevo visto me allo specchio, quando da bambina mi sentivo sola e messa da parte; tenendola per mano, la consolavo e andavamo via, insieme.

Diventando vecchi, il processo di crescita e cambiamento non finisce, quello che cambia è il senso di centratura, consapevolezza e presenza a se stessi, che io sento di aver raggiunto grazie alla mia Formazione IN Counseling, il mio “lavoro” di questi anni.

La mia centratura ora è uno stato di gioia per essere al mondo e un sentire la complessità e l’unicità del mio esserci.

L’idea di vecchiaia.

Il tema della vecchiaia ha richiamato l’attenzione di scrittori e filosofi fin dall’antichità, più di molte altre tappe della vita. Sull’argomento si è scritto e meditato molto, mentre l’infanzia e l’adolescenza sono state esaminate solo molto più tardi.

Si conosce un trattato sulla vecchiaia risalente al XVII secolo a.C. appartenente alla letteratura dell’antico Egitto.

Continua a essere letto e discusso lo scritto di Cicerone De Senectute.

Cicerone evidenziava quattro motivi per cui la vecchiaia è deprecabile e triste:

  1. la vecchiaia allontana dalla vita attiva, dove si progetta e costruisce l’attività sociale
  2. la vecchiaia indebolisce il corpo
  3. la vecchiaia nega quasi tutti i piaceri della vita
  4. la vecchiaia avvicina alla morte

 Gli stessi elementi sono presenti in molte analisi e valutazioni contemporanee, che però, rispetto al passato, non valorizzano più il legame tra vecchiaia e sapienza, che faceva percepire gli anziani come punti di riferimento, per tutta la società: agli anziani si affidavano compiti importanti e decisivi, politici e sociali.

L’uomo che non poteva più essere comandante militare o tribuno, entrava a far parte della gherusìa (il consiglio degli anziani, che assisteva il re nelle sue decisioni), del senato e/o di altre similari istituzioni.

Per millenni gli anziani sono stati i rispettati depositari delle tradizioni e dei saperi delle loro comunità. Fino alla rivoluzione industriale, i saperi del fare erano trasmessi dagli anziani ai giovani, che imparavano, con l’esperienza del lavoro guidato, a diventare artigiani. Nelle botteghe del Rinascimento italiano, accanto ai fabbri, sarti, tintori si formavano i più grandi artisti; Cimabue è famoso per le sue meravigliose Madonne e per aver scoperto Giotto, che accolse nella sua bottega, quand’era poco più che bambino.

La sapienza della vecchiaia era riconosciuta come valore alle stesse donne, che nell’età fertile non avevano alcun ruolo sociale, a parte quello di madre; in molte società, nella vecchiaia erano riconosciute come sciamane, guaritrici, sibille.

Oggi, in una società che esalta l’efficienza, la produttività e la giovinezza, la vecchiaia non è più una risorsa, un valore, ma un impedimento.

I vecchi sono inclusi nelle categorie degli emarginati, malati, poveri …

L’identificazione della vecchiaia con la malattia, l’inutile, l’idea di scarto, è quella che ha permesso, e favorito, l’attuazione di politiche scellerate, che allontanano gli anziani dal loro ambiente di vita, relegandoli in istituti che li nascondono alla vista.

Proporre una diversa visione della vecchiaia non è facile.

Una delle proposte possibili è la negazione, c’è un’intera industria del mantenimento e del prolungamento della giovinezza che propone immagini di anziani in perfetta forma fisica o che, quantomeno, ne mantengono l’aspetto, intenti a maratone, gare di body building o sfilate di moda, modelli irraggiungibili per anziani in pensione, acciaccati, di modeste capacità economiche, che dovrebbero rincorrerli a tutti i costi.

D’altra parte, non esiste per la vecchiaia una scansione temporale di sviluppo come per altre età della vita.

L’infanzia e l’adolescenza hanno cadenze temporali abbastanza precise, segnate da cambiamenti di crescita fisica e cognitiva, di maturazione sessuale che sono facilmente identificabili.

Per gli anziani è diverso, quando si diventa vecchi?

Nella nostra società occidentale questa percezione è cambiata molto negli ultimi 80 anni. Nel 1946 la Costituzione Italiana fissava a 40 anni l’età giusta per essere eletto al Senato e a 50 l’età necessaria per essere votato alla Presidenza della Repubblica.

Oggi persone di 60 anni non si considerano vecchie e l’attuale pandemia è stata uno degli elementi che ha messo molti di noi di fronte alla propria vecchiaia.

Credo sia possibile proporre una diversa visione della vecchiaia partendo da una sua considerazione come condizione fisiologica, non patologica.

Il fatto di continuare a vivere dopo l’età fertile, o quando le funzionalità muscolari e sensoriali cominciano a diminuire, ci offre nuove opportunità e nuova potenzialità di vita.

Questa concezione della vecchiaia non è nuova, mi piace citare alcuni esempi, quelli in cui più mi ritrovo:

– Solone scrisse: “Ho 80 anni e imparo ogni giorno qualcosa di nuovo” in risposta ad un poeta contemporaneo che si augurava di morire a 60 con le sue facoltà intatte (V sec. a.C.)

– T.S. Eliott: “I vecchi dovrebbero essere esploratori”, che per me significa farci guidare dal coraggio di essere curiosi.

Un testo che sviluppa quest’approccio è “La forza del carattere” di Hillmann.

Secondo Hillman gli ultimi anni della vita confermano e portano a compimento il carattere, intendendo per carattere la configurazione di tratti, manie, predilezioni e adesioni ideali di quella riconoscibile figura che porta il nostro nome, la nostra storia, una faccia che rispecchia un “io”.

L’intento di Hillman è spostare l’attenzione dal corpo all’anima (che possiamo pensare come tutto ciò che d’impalpabile ci muove, reclamando proprie soddisfazioni emotive, morali, spirituali).

Hillman non nega i processi degenerativi della vecchiaia, ma li sposta dal primo piano allo sfondo, riordinandone le priorità, svincolando la vecchiaia dal modello occidentale fondato sulla biologia e sull’economia.

Propone così un cambio di prospettiva, denunciando quanto alimentiamo il senso di afflizione collegato alla vecchiaia, sia identificandoci a un’idea di vecchiaia come scarto dai modelli di vita centrati sui valori della vigoria fisica e della produttività economica, sia puntando l’attenzione su ogni segno di decadimento fisico che la vecchiaia propone.

La patologia principale della vecchiaia è l’idea che ne abbiamo.

Hillman propone di immettere nuove idee che nutrano la mente e sostituiscano le vecchie.

Ad esempio, anziché valutare come rimbambimento senile la commozione per un atto di gentilezza, considerarla come caratteristica di mitezza dell’animo, come un tratto del carattere che una persona sviluppa in questa età e vederne il valore.

Il fatto che non si sopportino più le sciocchezze o le cattiverie e si decida di reagire, il non tollerare o escludere le persone viste come negative, può essere il compimento di un carattere che riconosce le sue priorità e necessità e non un aspetto “dell’acidità della vecchiaia”.

Le disfunzioni della vecchiaia diventano funzioni del carattere. Gli impedimenti e gli acciacchi della vecchiaia cambiano significato, se ne riconosciamo lo scopo.

Questo vale per tutti i caratteri, anche quelli poco raccomandabili. Già Platone sosteneva che “non la vecchiaia è responsabile dei loro mali, bensì il carattere degli individui.”

 Di nuovo Cicerone: “… i vecchi sono bisbetici, pieni di preoccupazioni, irascibili, difficili, avari… questi sono però tratti del carattere non della vecchiezza”.

Per la tradizione classica da vecchio sei lo stesso di prima, solo molto di più.

Il carattere della vecchiaia

L’idea di carattere proposta da Hillman permette di superare la semplicistica contrapposizione tra corpo e anima e di immaginare il carattere come una configurazione indipendente che prende vita dal corpo e dall’anima e non è riducibile né all’uno né all’altra.

Le immagini di questo carattere hanno forma corporea, la loro forza può essere così duratura che, anche molti anni dopo che una persona “esce di scena”, può influenzare abitudini, gusti e decisioni di chi queste immagini  le ha vive nella memoria, nel corpo.

L’immagine di una persona sopravvive alla sua dipartita e, a volte, dopo che la persona se n’è andata, è ancora più potente.

Queste immagini non sono semplicemente ricordi, possono mostrare una sorprendente autonomia, ispirare scelte e comportamenti, mantenerci legati a idee e oggetti, che agiscono su di noi come segni di quel carattere e del suo potere.

In questa rappresentazione di Hillman, ho riconosciuto esattamente ciò che è avvenuto dopo la scomparsa di mio padre, che, morto quasi 50 anni or sono, ha continuato a vivere con noi; ho compreso che la sua presenza non era semplicemente un ricordo: mi piace pensare che è il suo carattere ad essere rimasto vivo nel nostro sentire indirizzando il nostro agire.

Quando lavoravo in fabbrica e dovevo decidere se iscrivermi all’università e tutti mi dicevano che non ne valeva la pena, perché avevo un buon lavoro, uno stipendio, nella mia voglia di studiare riconoscevo quella di mio padre, che aveva fatto solo la quinta elementare, ma cercava ogni occasione per imparare, leggeva i giornali, discuteva con me di politica.

E quando, dopo un intero anno senza esami, stavo per rinunciare, ho deciso di provare a darne uno, dopo aver studiato sei mesi, perché non mi sentivo mai abbastanza pronta. Ho riconosciuto il mio volere avere il suo carattere, la sua determinazione era la mia, alla discussione della mia laurea non ho voluto nessuno, ero da sola, bastavo io.  Mentre scrivevo la tesi, ho riconosciuto le immagini del carattere dei miei nonni, dei miei genitori, di mio marito, io sono un’altra cosa, diversa da loro, ma fatta anche di loro e da loro.

In questo periodo della mia vita sto vivendo un’esperienza che ho ritrovato in Hillman: la possibilità di estendere la propria vita.

Come?

Innanzitutto, estendendola all’indietro, studiando storie, vicende del passato, penetrando nelle radici della tradizione familiare, sociale, culturale; è questo il completamento di un percorso di tutta una vita di letture e di studio della storia; che è sempre stata la mia grande passione, allargata a tutti gli aspetti della vita dell’uomo; non solo lo studio della storia legato agli avvenimenti di grande portata, ma quella legata agli aspetti quotidiani, con una particolare attenzione alla vita delle donne.

In   questo modo la nostra esperienza di vita si arricchisce di quella altrui, aprendoci al riconoscimento di un’altra possibilità di estensione, questa volta verso il futuro: come allunghiamo la vita, alle nostre spalle, possiamo estenderla verso i nostri discendenti.

 L’arte di ascoltare gli altri, e la curiosità per le loro vite, ci permette di fare esperienza di altre vite, altri tempi e luoghi.

Così la longevità si libera dalla capsula temporale e porta a compimento la conoscenza di sé.

Possiamo trovare o ritrovare luoghi dove la nostra anima si sente a casa: il dialetto delle nostre radici, le immagini dei nostri antenati o dei nostri nipoti; possiamo usare l’immaginazione e abitare luoghi e tempi che più, e meglio, si adattano al nostro sentire.

La parola vecchio.

La parola vecchio si accompagna spesso a cose che amiamo e apprezziamo perché senza tempo e senza età: il Ponte Vecchio a Firenze, le vecchie mura di una città, i vecchi manoscritti di una biblioteca rimandano ad un’idea di eternità, di sempre vivo. Vecchi testi come quelli di Omero e Ovidio hanno bisogno di nuove traduzioni aggiornate, queste invecchiano, i testi no.

E i vecchi oggetti con cui conviviamo, tanto più cari quanto più ci rimandano lontano nel tempo, a una persona, a un ricordo? Una delle cause dello spaesamento e della depressione dei vecchi negli istituti è la perdita del loro vecchio ambiente, degli oggetti cari, per la crudeltà di un’efficienza pratica che nega loro anche una foto sul comodino.

La parola vecchio era associata nell’antichità, e lo vediamo nelle letterature antiche, a nobiltà, misericordia, poi la parola è passata ad essere usata come scherno e insulto contrapposta a giovane, nuovo, moderno.

Quando ciò che è vecchio riceve la sua definizione soltanto nel confronto col nuovo perde il suo valore.

Se non è il nuovo ciò che fa da termine di confronto, da sfondo al vecchio, la sua figura cambia: ogni giorno, ogni azione è un dono, una possibilità, un’avventura; la vecchiaia è l’avventura della lentezza.

L’apprezzamento di qualsiasi fenomeno richiede un approccio fenomenologico, capace di penetrare il fenomeno per com’è, osservarlo da ogni lato, ascoltarne le risonanze e gli echi, riconoscerne i diversi aspetti.

Indagare l’idea di vecchio in termini di confronto devia l’immagine e non ci porta vicino alla sua natura, quella qualità che avvertiamo negli oggetti e nei posti vecchi, nell’incontro con vecchi amici, nell’osservare vecchi volti espressivi, vecchie mani al lavoro.

L’aggettivo vecchio fa risaltare il carattere di un oggetto, di una persona, la mia vecchia casa, il mio vecchio amico, il mio vecchio cane….

L’aggettivo vecchio comunica emozioni amplificate, lo uso per le cose più profondamente amate (o anche profondamente disprezzate: “quel vecchio stronzo del mio professore di matematica”).

Nella vecchiaia il tempo da vivere si accorcia, ma il tempo sentito si amplia, si sentono gli anni, i decenni; il tempo che dura è il valore della vecchiaia.

Il compito che i vecchi hanno sempre svolto era quello della conservazione e della trasmissione delle conoscenze, la proposizione di modelli di carattere a difesa della vita.

Nel rapporto con i giovani il cancellare le distinzioni tra giovani e vecchi o confondere i compiti dell’uno e dell’altro é il tentativo disperato e inutile di essere come loro, di allontanare da sé la vecchiaia; la capacità di essere vecchi in modo pieno, di essere autentici nel nostro carattere, influirà positivamente nelle relazioni e aiuterà i giovani a sviluppare il loro carattere.

Non è fare i giovani che aiuta noi vecchi a stare con loro.

Dal durare al lasciare.

Lasciare vuol dire per un vecchio morire, sembra una sconfitta del durare.

L’idea che la società occidentale sostiene è quella di tenere duro, mantenersi attivi, in forma fisica, fare ginnastica, fare molte attività, per mantenere vivo il cervello, pensare positivo, allontanare i pensieri negativi, per durare.

Questo bisogno di tenere duro può essere generato più dalla paura di morire, e dal suo evitamento, che dalla voglia di vivere.

Nel funzionamento del nostro corpo vecchio vediamo disfunzioni, decadenza e morte, di qui la paura e l’odio per quello che ci capita, il desiderio di mettere indietro l’orologio. Più ci sforziamo di durare, più aumenta la paura e più la vecchiaia è vissuta come decadenza.

L’ho sperimentato in questi ultimi anni, fino al 2015 ho fatto esperienza di cammini a piedi di più giorni, spesso anche su terreni impervi, percorrendo distanze anche superiori a 30 km. Queste esperienze si sono interrotte, prima per la malattia di mio marito Daniele, poi per problemi di salute di mia madre e mio fratello e poi per la pandemia. Nelle poche e saltuarie occasioni di cammino mi sono accorta di non essere più in grado di percorrere quelle distanze e ho continuato a ripetermi che appena avessi avuto tempo di riprendere e di allenarmi sarei tornata a fare di nuovo percorsi simili. Facendo questo percorso di riflessione sulla vecchiaia, mi sono resa conto che no, non tornerò più a quei livelli di performance, questo pensiero mi ha spaventato, rattristato. Adesso sto con questo pensiero e intanto mi ascolto; ascolto l’effetto che stare con questo pensiero mi fa e, piano piano, vedo nuove prospettive di cose da fare, cammini più brevi; sto sviluppando esercizi di meditazione in cammino e scopro che mi piacciono e ho incontrato persone che sono interessate a farlo con me. 

Per cambiare il paradigma del modello di analisi e comprendere meglio il cambiamento di prospettiva Hillman propone di cambiare la domanda da “Che cosa fa bene alla salute della mia natura?” a “Che cosa è importante per il mio carattere?”

Il vecchio istinto di autoconservazione, che ci spinge a durare e ad arrivare primi, oggi é ripensato, dagli studiosi, come funzione di un “gene egoista”, il cui scopo è la conservazione e trasmissione dei geni.

Se questo è vero, lo scopo principale della nostra vita è questo: conservare e trasmettere i nostri geni.

In vecchiaia, man mano che i fattori psicologici e la cultura temperano o superano l’eredità genetica, la teoria del gene egoista pare sempre meno adatta a rispondere alle domande su e del carattere.

Gli anni della giovinezza si concentrano nel fare le cose, gli anni più tardi riflettono sulle cose fatte e su quelle che si sceglieranno e continueranno a fare.

Lo studio della vecchiaia dovrebbe rispecchiare lo stesso progresso che gli individui compiono negli anni della vecchiaia, dalla fisiologia al carattere.

Lo studio del senso profondo della vecchiaia, che porta avanti la tradizione del pensiero umanistico, dall’antichità, si esprime nell’opera di saggisti, filosofi, artisti, romanzieri.

È un errore madornale leggere i fenomeni della vecchiaia come indizi di morte, invece che come iniziazioni di un altro modo di vivere.

Se leghiamo alla morte lo studio della vecchiaia, non ci sarà motivo per indagarne i segni, i sintomi, i cambiamenti, le potenzialità.

Nel lasciare questa concezione che ci ancora al cambiamento del nostro corpo come distruzione, degrado, marcescenza, possiamo accettare i limiti del nostro corpo e vederne le nuove potenzialità.

“Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto … Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo.” (F. Nietzche)

Ci sono alcune caratteristiche della vecchiaia che, come la mitezza, cui ho già accennato, vengono generalmente considerate negative, sintomo della degenerazione fisica e mentale della vecchiaia, prova di un cervello in declino:

Le ripetizioni

Le persone anziane si ripetono, spesso alla lettera, raccontando episodi lontani e piccoli particolari della loro vita quotidiana, accolti spesso con distratti cenni di consenso condiscendente.

Le ripetizioni in realtà appartengono ai vecchi e ai molto giovani. I bambini spesso pretendono di ascoltare la stessa storia, ripetuta sempre uguale, con le stesse parole.

La ripetizione è stata l’elemento costitutivo ed essenziale della tradizione orale, il tramandare storie da una generazione all’altra, storie e saperi; interi patrimoni culturali sono stati tramandati oralmente per fino alla comparsa della scrittura, in tempi relativamente recenti.

Le storie raccontate ripetutamente, riferite talvolta all’infanzia, alla gioventù o a episodi significativi della tradizione familiare, costruiscono il carattere della famiglia, del gruppo, ci sono modi di dire, di fare, di essere che caratterizzano ogni nucleo sociale.

Secondo un filosofo francese, Deleuze, la ripetizione afferma l’originalità, l’unicità di ciò che avviene per chi lo racconta. La ripetizione è una compagna amata di cui non ci si stanca, la vita stessa è una ripetizione, ripetere è un modo di continuare a stare in vita.

Gli anziani, ripetendo, svolgono il ruolo di antenati, riaffermano il ripetersi della storia dell’umanità e di ogni uomo.

Ogni uomo vive e “ripete“ la vita, il sentire di altri uomini; ripetendo, vive allo stesso tempo l’unicità del proprio carattere e l’universalità della sua umanità. Così ascoltiamo storie che racconteremo ad altri, mantenendone in vita l’anima e lo spirito.

La memoria

Quello della memoria è un tasto dolente: “Non mi ricordo che giorno è” dice mia mamma guardandomi preoccupata e io penso alla mia disperata ricerca delle chiavi della macchina, del cellulare, che precede la mia uscita di casa o provoca rientri precipitosi per il recupero di uno o più di questi oggetti.

Una delle cose che più preoccupa i caregiver che in questo periodo ho incontrato, è proprio la perdita della memoria. “Mia madre mi racconta cose di 30 anni fa, ma non si ricorda cosa ha mangiato.”

A questo punto della “digestione” dell’idea della vecchiaia mi chiedo: “Perché dovrebbe ricordarsi di quello che ha mangiato?”

Forse non gliene importa nulla, mentre ci tiene a raccontare un episodio lontano che le è venuto in mente, belle immagini del passato che si presentano alla sua mente. Di conseguenza appare evidente che l’uso di mezzi artificiali, cellulari, timer, cartellini, proposti per facilitare loro la vita, producono spesso l’effetto opposto, di confonderli e mortificarli; non rispondono ad un bisogno dell’anziano, ma di chi gli sta intorno.

Chi si prende cura di una persona anziana, ha l’esigenza di ricordare l’orario dei pasti, la scansione delle medicine, delle visite mediche. L’anziano vuole passeggiare, parlare con qualcuno, raccontare quello che ha visto, letto, ricordato, vuole raccontare la sua storia, i momenti e i sentimenti che ancora danno valore alla sua vita.

Uno raccoglie i dati nella memoria di breve termine, l’altro utilizza la memoria di lungo termine.

I fisiologi hanno, dall’Ottocento in poi, osservato l’invecchiamento del cervello, pesandolo e descrivendone il deterioramento come inevitabile conseguenza dell’età.

I vecchi hanno dovuto “difendersi” da un’immagine decadente di se stessi, sia fisicamente sia mentalmente.

Gli artisti anziani, che producevano opere mirabili, erano considerati felici eccezioni.

In realtà i vecchi sono ricchi di potenzialità che possono ancora esprimere.

In questi ultimi anni, studi più approfonditi con le tecnologie più avanzate hanno scoperto che il cervello dell’anziano è più leggero e, soprattutto, se la parte neuronale legata agli apparati sensoriali si deteriora sensibilmente, le aree neuronali preposte alle funzioni più elevate non diminuiscono; dopo i 70 anni aumenta l’interazione fra i due emisferi del cervello, cosa che produce un incremento delle capacità creative; insomma, vengono messi in atto complessi meccanismi di compenso del declino fisiologico dovuto all’età e quello che si perde in velocità, si recupera in flessibilità.

Hillman trova nella capacità di distinguere tra la memoria di breve e quella di lungo termine una delle imprese più straordinarie della vecchiaia.

Il carattere è fatto di depositi della memoria, soprattutto degli errori e delle disgrazie, sui quali lavoriamo, elaborandoli da vecchi. L’inventario di una lunga vita è enorme e diventa indispensabile fare spazio, anche emotivo, alla cura del materiale “in deposito”.

Il tempo passato acquista valore se noi gli diamo spazio e senso nel presente, ma non come nostalgico e affliggente ricordo, ma come insieme di parti del nostro essere e sentirci presenti.

Il tempo passato acquista valore se ci permettiamo di inserirlo tra le nostre nuove esperienze, nel tessuto di un nostro “Essere” che si compone e modifica continuamente.

La vecchiaia, per un counselor

Un counselor può trovarsi ad affrontare il tema della vecchiaia in più situazioni:

 – la propria vecchiaia

 – quella del cliente

 – quella della persona cui il cliente si occupa o è vicino.

Per la propria vecchia, questa parte della mia tesi può essere un esempio, certamente non esaustivo, ma spero fonte d’ispirazione.

Ci sono aspetti della vecchiaia che è importante conoscere, per comprendere le dinamiche delle relazioni familiari e del prendersi cura.

Nell’ultimo anno, più volte a scuola il problema è stato oggetto di sessioni di counseling; una delle più significative, per me, è stata la volta in cui Eliana, una mia compagna di corso, si è proposta come cliente e io come counselor.

Eliana portava la difficoltà di reggere la gestione dei suoi genitori, ha esposto le loro difficoltà di tipo sanitario e psicologico e le sue.

Nel corso della sessione lo scambio attraverso i feedback è diventato corale, lo stesso problema era o era stato vissuto da tutti i presenti, Domenico compreso.

Ascoltando Eliana e i feedback degli altri, sono stata di volta in volta la figlia che si deve occupare dei genitori e cerca di conciliare la casa, gli impegni di lavoro, la famiglia, lo spazio per sé con il desiderio di occuparsi dei suoi vecchi, e la vecchia madre o padre oggetto delle cure.

Ho sentito, da vecchia madre, la paura suscitata dal vedere che il corpo e la mente ti stanno tradendo e la voglia di trattenere vicino chi si prende cura di te e riempie la tua vita.

Ho visto, da figlia, lo sguardo grato di mia madre quando facciamo qualcosa insieme e quello mortificato di quando si dimentica le cose o non riesce più a fare qualche semplice faccenda casalinga.

Ho sentito, da figlia, il moto d’insofferenza che mi coglie quando devo ripetere per l’ennesima volta una cosa o devo rinunciare a un viaggio, a vedere un’amica, una mostra e il senso di colpa e amarezza che provo quando mi sfugge una frase impaziente, che si specchia subito sul volto di mia madre.

Tutto questo, che avevo dentro e stavo rimasticando e digerendo da un po’, è emerso in quella sessione di counseling, grazie al lavoro del gruppo, i cui interventi e feedback si sono intrecciati amplificando la nostra consapevolezza e il sentire. Ho provato tanta gratitudine per Domenico, per Eliana e per le altre ragazze, che hanno lavorato con noi. Nei giorni e nelle settimane seguenti, facendo i conti con la mia vecchiaia e con mia madre, “sentivo” cose che mi facevano stare meglio, pensare più lucidamente e agire con tranquillità.

Sono andata a Ginevra, da mio figlio Tommaso, chiedendo agli altri membri della famiglia di prendersi cura loro di mia madre e mollando le mie manie di controllo (un po’).

Un altro aspetto, emerso durante la mia sessione di counseling con Eliana, riguarda il modo di esprimere il nostro atteggiamento nei confronti dei nostri anziani.

Le espressioni “devo andare dai miei”, “mi devo occupare di..” sono state usate più volte nel corso della sessione, abbiamo cercato di comprendere l’uso di questo “devo” e il suo senso.

La consapevolezza del fatto che quello che facciamo per i nostri genitori, risponde a un bisogno di cura nei loro confronti, che esprime il nostro affetto, il nostro amore per loro; ciò che facciamo per loro è un’evidenza di questo nostro bisogno di prenderci cura di loro e di quanto vogliamo riuscire a farlo; altro che “dovere”!

Se dico: scelgo di prendermi cura dei miei genitori, di mia madre, voglio farlo, cambia la mia percezione di quello che faccio, mi scivola un peso dalle spalle, dal cuore.

A questo punto la ricerca di un equilibrio tra questo e gli altri miei bisogni, di avere tempo per me ad esempio, diventa più facile, si aprono nuovi scenari di possibilità, di soluzioni.

In questi due anni ho incontrato caregivers vari, di anziani e malati gravi.

Mi hanno raccontato le loro storie, che io ho ascoltato e accolto, offrendo loro i feedback, che nascevano dal mio sentire, di quel momento, ma collegati all’esperienza di nutrimento e crescita di questi anni di scuola IN Counseling.

 Li ho visti confortati e alleggeriti, scoprire un altro modo di vedere se stessi e i loro cari, di parlare della loro insofferenza e stanchezza; li ho guardati respirare e lasciare andare i propri sensi di colpa, sostenuti dalle motivazioni di cura e amore per i cari di cui si stavano prendendo cura.

Ho provato un grande dispiacere per le loro situazioni, ma ho sentito una grande fiducia per le possibilità di contatto e condivisione.

La scrittura di queste pagine sulla vecchiaia è stata molto laboriosa; da quando Domenico mi ha chiesto di farlo, ho riletto libri, ho scoperto nuovi autori e spunti.

E’ stato un processo di “masticazione e digestione” lungo e faticoso, intralciato dalla paura di non saperlo fare, che mi portava a rimandare, in continuazione, il mettermi a farlo.

Il sentire che predomina ora è una profonda gratitudine per Domenico, che mi ha “vista” capace, e per tutti i formatori e compagni della scuola, che hanno sostenuto, nutrito e accompagnato questo processo.

LA VECCHIAIA, a cura di Luigi Negro

Essere vecchi, in questa società, vuol spesso dire essere di peso ed inutili.

Al contrario, nelle antiche società tribali, il vecchio era il saggio cui la tribù si rivolgeva per ricevere consigli.

Oggi si considera “anziano” chi ha superato i 65 anni, chi è in pensione; chi non è più produttivo considera se stesso anziano. Gli si offrono agevolazioni sul prezzo dei biglietti di cinema e teatro, e su vari abbonamenti, per stimolarlo a essere attivo e motivato.

L’anziano va al cinema, nei musei, a teatro, guarda i nipotini passando con loro lunghi periodi di accudimento, magari va pure al mare nel periodo invernale.

Perché mai dunque un anziano dovrebbe rivolgersi a un Counselor?

Tre sono le grandi paure dell’anziano:

  1. La solitudine
  2. La malattia
  3. La morte

La solitudine

Soli, perché molti di coloro che ci accompagnano nella vita sono già morti; soli, perché i figli ormai grandi hanno altre cose cui pensare, piuttosto che dedicare del tempo all’anziano; soli, perché la persona che si ha a fianco sembra che non ci sopporti più; i genitori sono morti, da diverso tempo, e rimangono solo nella memoria a consolare, come di solito fanno mamma e papà.

Che ruolo può dunque svolgere un counselor, o chiunque voglia prestare aiuto, in questa situazione?

Il più grande aiuto di cui tutti abbiamo bisogno a tutte le età è essere ascoltati.

Molti anni fa mia madre mi chiese se potessi indicarle un collega da cui andare, “per parlare”. In quel periodo condividevo lo studio con uno psicoterapeuta e uno psichiatra: le indicai lo psichiatra, che faceva anche psicoterapia, e mia madre passò mesi a parlargli del marito, del figlio, della sorella.

Scoprii, nel tempo, che era così contenta che, occasionalmente, portava al “dottore” un pollo ruspante (viveva in campagna) ed altre prelibatezze.

Perché era grata di essere, finalmente, “Ascoltata”: c’era un altro essere umano che la guardava negli occhi e le sorrideva. Non un marito assente o un figlio polemico e reattivo.

Ancora qualche anno prima di morire, ricordava con piacere quel “Dottore”.

Quando il mio vecchio collega morì, non lo dissi a mia madre, per non darle un dolore per la perdita di forse l’unica persona che l’aveva accolta senza giudizio.

Avete letto nelle pagine dedicate all’infanzia e all’adolescenza quanto siano importanti l’ambiente e le persone che si prendono cura di noi in quelle fasi d’età: la mancanza di accudimento lascia ferite dolorose per tutta la vita, ma curabili.

Cinque parole rappresentano il tipo di cura che dovremmo ricevere da piccoli e sempre, quando siamo in una relazione affettiva:

  1. Attenzione – interesse genuino per noi, per quello che ci piace, o non ci piace, per ciò che ci ispira e ci motiva, non in modo prepotente o intrusivo; l’attenzione che riceviamo ci fa accorgere di essere ascoltati e considerati.
  2. Accettazione – accoglienza genuina dei nostri interessi, desideri, attività, e preferenze, senza che si cerchi di alterarli o cambiarli in nessun caso.
  3. Affettività – conforto fisico e com-passionevole.
  4. Apprezzamento – incoraggiamento e gratitudine per chi e come siamo.
  5. Accoglienza – è sicuro poter essere noi stessi ed esprimere tutto ciò che sentiamo, anche se non è perfettamente gentile o socialmente accettabile.

Se queste cinque “cure” non le abbiamo ricevute, ne porteremo le ferite per tutta la vita.

Penso che mia madre le abbia ricevute dal “dottore”, e ne ha portato un ricordo indelebile per tutto il tempo che ha avuto ancora da vivere.

Si è scritto, in altre pagine di questo manuale, che per lavorare con l’altro (cliente o paziente) è necessario essere consapevoli, avere consapevolezza delle nostre ferite, questo perché potremo dare, a chi si rivolge a noi per chiedere aiuto, soltanto quello che abbiamo ricevuto dai nostri genitori; se non l’abbiamo ricevuto, allora dovremo lavorare su noi stessi per lenire le nostre ferite, perché solo un counselor / terapeuta che abbia lavorato sulle proprie “ferite” può comprendere quelle dei propri clienti/pazienti.

La malattia

Nasciamo fragili e impauriti. Poi, nel corso della vita, ci rafforziamo nel corpo e nella psiche, fino alle soglie dell’età adulta e della vecchiaia. In quest’ultima fase il corpo e la mente, il senso di sé, della propria identità, s’indeboliscono nuovamente fino alla fine dei nostri giorni.

L’atto che stabilisce questo passaggio spesso è la diagnosi di una malattia, nel corpo e/o nella mente. È l’atto che, improvvisamente, sancisce che qualcosa è cambiato, non si è più come prima, evento che se non spaventa un giovane adulto, può terrorizzare l’anziano.

Il corpo soffre e la mente si stringe intorno al dolore.

Ammalarsi è un fatto che mette in azione il nostro sistema immunitario e di difese psichiche, che chiama in causa la nostra personalità e le nostre conoscenze, il nostro sviluppo psichico e il nostro sistema cognitivo. Solo se siamo in grado di riconoscere, in alcuni casi persino di valorizzare, la trasformazione psicologica richiesta da un’infermità potremo tollerare gli inevitabili vissuti di tristezza, impotenza e dipendenza che la malattia porta con sé.” (V. Lingiardi, Diagnosi e destino).

È dunque importante non negare la malattia: rimuovere, scindere o proiettare non aiuteranno ad accettarla.

Chi aiuta ha il compito di rinforzare le difese della persona che aiuta, aumentarne le risorse (capacità che mettiamo in atto per affrontare le difficoltà), metterla in grado di accettare la malattia, senza negarla o proiettare la rabbia sul medico o su chiunque non capisca la sua sofferenza.

Il caregiver deve aver lavorato sulla propria paura della malattia, deve saperla riconoscere nell’altro ed entrare in uno stato di presenza compassionevole, che possa permettere all’altro di sentirsi “visto” e accompagnato.

Una paziente, giovane, 45 anni, venne da me per aumentare le proprie risorse nel combattere la malattia. Ci riuscimmo per un tempo abbastanza lungo; riprese a ballare e continuò a lavorare.

Tempo fa ho saputo che la malattia, alla fine, aveva vinto. Nel frattempo, però, lei aveva avuto una storia d’amore, che le aveva permesso di guardare alla vita nuovamente con speranza.

Se ne sarà andata con la consapevolezza di aver fatto del proprio meglio per vivere in pienezza il tempo che le restava.

La morte, o meglio, la sua paura.

Il pensare alla morte non è solo un’esperienza tipica della vecchiaia.

Nell’adolescenza spesso emergono riflessioni sul senso della vita e, se appare senza speranza, l’adolescente può arrivare a togliersela, suicidandosi.

Nella vecchiaia, generalmente, si é accettato il fatto che la vita finisca: i nostri genitori non ci sono più, molti coetanei, nostri amici e conoscenti, se ne sono andati; siamo soli, di fronte alla fine dell’esistenza, che sentiamo avvicinarsi, anche se in modo indeterminato.

Dall’antichità si è sempre riflettuto sulla morte, evento che non lascia scampo, nega ogni speranza e ogni nuova, possibile, opportunità.

Epicuro diede alcune ragioni per non avere paura della morte.

Fa parte del genio di Epicuro aver anticipato la visione contemporanea dell’inconscio: fu lui a evidenziare infatti che le preoccupazioni di morte non sono consapevoli per la maggior parte degli individui, ma devono essere dedotte da manifestazioni sotto mentite spoglie: per esempio da un’eccessiva religiosità, da un accumulo ossessivo di ricchezze, da una cieca avidità di potere e onori, tutte cose che costituiscono una versione contraffatta dell’immortalità.

In che modo Epicuro tentò di alleviare l’angoscia della morte?

Formulando una serie di argomentazioni ben costruite, che i suoi allievi imparavano a memoria. Molte di queste argomentazioni sono state oggetto di dibattito durante gli scorsi ventitre secoli e sono tuttora significative per il superamento della paura della morte (…).” (I. Yalom, Fissando il sole).

 Le tre argomentazioni più note, elaborate da Epicuro, per alleviare l’angoscia della morte sono:

1. La mortalità dell’anima;

2. Il nulla ultimo della morte;

3. L’argomentazione della simmetria.

Non prendiamo in considerazione la prima argomentazione per le implicazioni religiose che essa ha.

Nella seconda argomentazione (Il nulla ultimo della morte), Epicuro ipotizzava che la morte per noi non sia nulla, perché l’anima è mortale e si disperde con la morte.

Poiché quel che è disperso non si percepisce, poiché qualsiasi cosa non percepita per noi è il nulla, poiché, in altre parole, dove sono io non è la morte e dove è la morte non sono io, «Perché temere la morte se noi non la possiamo mai percepire?”, concludeva Epicuro.

La terza argomentazione di Epicuro (della simmetria) sostiene che la nostra condizione di “non essere” dopo la morte è la stessa nella quale ci trovavamo prima della nascita.

Quali strumenti possiamo utilizzare per affrontare questo impegnativo periodo della nostra vita?

Il Buddha insegnava che uno dei tre veleni della nostra esistenza è l’attaccamento, causa di sofferenza, e infine, secondo il Buddismo, di rinascita. Attaccamento alle nostre idee, a chi crediamo di essere, al successo che abbiamo raggiunto, alle persone, agli oggetti.

Perdere questi pilastri della nostra vita è certamente fonte di sofferenza. La nostra identità è spesso costruita intorno agli obiettivi che ci siamo prefissati: un lavoro di successo, una moglie e dei figli, una bella auto, le vacanze in luoghi esotici e così via. La perdita di uno di questi riferimenti lede il senso d’identità; perdere la moglie o il marito o perdere il lavoro sono gravi minacce al nostro ego e l’unica cosa che possiamo imparare a fare è “LASCIARE ANDARE”.

Queste perdite sono piccole morti, ci dicono che le cose finiscono, che tutto è impermanente, che tutto è transitorio.

Quale grande prova per prepararsi alla “grande fine”!

È sempre doloroso lasciare andare; vi sono persone che vengono in seduta proprio perché non riescono a lasciare andare, non accettano la FINE. Non accettano che le cose cambino e finiscano, e dunque: come possiamo intervenire per favorire la consapevolezza della necessità di “lasciare andare”.

Una pratica efficace che esiste da più di duemila anni è la meditazione: emerge un pensiero o una sensazione corporea o un’emozione o un ricordo, lo noto, lo riconosco e lo lascio gentilmente andare tornando al respiro. Praticare con costanza rende automatico il lasciar andare per tornare al qui e ora.

Ho il terrore di morire, mi vedo già nella bara, tutti che piangono”, noto il pensiero, riconosco la mia paura e lascio andare, tornando al respiro, “E’ vero, sono qui e sono sano e vivo, e non sono morto”. … Pratica magnifica che allontana la paura e la sofferenza permettendo di recuperare il Sé, nel qui e ora, che è tutto ciò che Esiste.

Chi tra noi non ha conosciuto qualcuno (inclusi, forse, noi stessi) così rivolto verso l’esterno, così preoccupato dall’accumulare beni o da quello che pensano gli altri, al punto tale da perdere completamente il senso del proprio io? Quando a un tale individuo viene posta una domanda, costui cerca la risposta fuori e non dentro di sé; ovvero esamina le facce degli altri per presagire in qualche modo la risposta che loro desiderano o si aspettano.”(I.Yalom, Fissando il sole).

Schopenhauer, in una terna di saggi, che scrisse verso la fine della propria vita, evidenziava che conta solo ciò che un individuo “è’”.

Non la ricchezza o i beni materiali accumulati, né lo status sociale, né una buona reputazione, danno origine alla felicità.

I beni materiali sono un fuoco fatuo.

Schopenhauer sosteneva che l’accumulo di ricchezze e di beni è infinito e insoddisfacente: più si possiede, più le richieste si moltiplicano, così che non siamo noi a possedere i nostri beni ma sono i nostri beni a possedere noi. 

La ricchezza è come l’acqua del mare: più se ne beve, più si ha sete” (A. Schopenhauer, L’arte di invecchiare).

La reputazione è evanescente quanto i beni materiali.

Schopenhauer scriveva che «Metà dei nostri problemi e delle nostre ansie ha origine dalla preoccupazione per l’opinione degli altri (…) dobbiamo estrarre questa spina dalla nostra carne»: l’opinione degli altri è uno spettro che può modificarsi in qualunque momento.

A dar valore all’opinione altrui, diventiamo schiavi di quello che gli altri pensano o, peggio, di quello che sembrano pensare, che (pur immaginandolo!) non possiamo mai sapere, effettivamente.

Infine, scriveva Schopenhauer, è solo ciò che siamo a importare veramente.

Una buona coscienza ha più valore di una buona reputazione.

Il nostro scopo più grande dovrebbe essere una buona salute e la ricchezza intellettuale perché “Noi perdiamo tre quarti di noi stessi per essere come le altre persone.”(A. Schopenhauer)

L’idea che la qualità della nostra vita sia determinata dal modo in cui interpretiamo le nostre esperienze, e non dalle esperienze in sé (concetto su cui insiste Paolo Quattrini, nel suo testo “Fenomenologia dell’esperienza”, che è alla base del concetto di counseling promosso dal presente manuale), costituisce un’importante dottrina terapeutica che risale all’antichità e che è diventata un concetto fondamentale tanto nella terapia dinamica che in quella cognitivo-comportamentale; entrambe rispolverano le idee di Epicuro e l’enfasi di Schopenhauer sulla ricerca dell’autenticità dell’Essere, per combattere l’angoscia della morte; tali idee ed enfasi possono essere, anche per un counselor, un buon sfondo culturale cui poggiarsi, nel corso del proprio lavoro.

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