Le pratiche di base del counseling

Le “pratiche” di base del counseling, capitolo 3.3 del “Manuale per la Formazione IN Counseling”.

Nel quadro che il presente Manuale dipinge, le “pratiche” che tratteremo in questo capitolo hanno un valore di straordinaria importanza.

L’accoglienza, l’ascolto, l’osservazione non giudicante, la presenza, la spola, il feedback, sono le “pratiche” utilizzate da noi counselor nel nostro fare counseling.

Principio di base del counseling è l’assioma filosofico (ampiamente ripreso dalla psicologia umanistica) che ciascuna persona disponga, potenzialmente, sin dalla propria nascita, di quanto serva per affrontare e superare le difficoltà del vivere.

Si tratta di un innato bagaglio di potenzialità, proprie dell’intero genere umano, la cui funzionale e opportuna messa in atto, da parte di ciascuno di noi, dipende, di volta in volta, da quanto e da come le stesse siano state sviluppate.

Tale sviluppo si rende  possibile, e si qualifica, in forza del rapporto individuo-ambiente (con particolare riferimento alla dimensione socio-relazionale) e dai personali correlati emotivi di cui ogni singolo individuo fa esperienza.

Il presupposto sul quale noi counselor poggiamo il nostro fare counseling è che, chi non riesce ad affrontare positivamente le proprie difficoltà esistenziali, non ci riesca perché non ha ancora trovato il modo, nella dimensione socio-relazionale in cui vive, di sviluppare/valorizzare quelle proprie potenziali capacità, che gli permetterebbero di riuscire a farcela ad affrontare positivamente le proprie difficoltà esistenziali.

La relazione di counseling si propone allora come quella “dimensione socio-relazionale”, costituita e gestita ad hoc, per aiutare l’individuo a sviluppare, e attivare, le capacità personali di cui potenzialmente dispone, per meglio affrontare le difficoltà esistenziali che sta vivendo.

Nella contingenza in cui sta vivendo le difficoltà che non riesce a superare, l’individuo non ha ancora sviluppato la coscienza e la conoscenza delle proprie, relative, potenziali capacità di farcela e non può, quindi, ricorrervi.

La relazione di counseling si propone, allora, come dimensione socio-relazionale “protetta”, in cui fare esperienza di queste capacità e apprenderle.

Il tutto avviene perché nella relazione di counseling:

  1. sperimentiamo nuovi modi di contattare e rapportarci con l’ambiente (alias con gli altri) e con noi stessi;
  2. facciamo esperienza di nuove sensazioni, sentimenti ed emozioni, di nuovi pensieri e visioni di noi stessi e degli altri;
  3. scopriamo la possibilità di nuovi comportamenti e strategie d’azione personale (di cui cominciamo a fare esperienza pratica, ma soprattutto simbolica-immaginaria, nella relazione stessa di counseling).

Insomma, è quanto viviamo nella relazione di counseling che dà il via allo sviluppo delle nostre capacità potenziali di far meglio fronte alle difficoltà esistenziali, che stiamo vivendo e che ci hanno portato a chiedere aiuto ad un counselor.

Cosa viviamo nella relazione di counseling?!

  1. viviamo l’esperienza dell’essere accolti e dell’accogliere
  2. viviamo l’esperienza dell’essere ascoltati e dell’ascoltare
  3. viviamo l’esperienza di cosa possa capitare ad osservare e ad essere osservati senza giudicare
  4. viviamo l’esperienza  della nostra e dell’altrui presenza
  5. viviamo l’esperienza di cosa capiti a fare la spola (cosa sia la “spola” cui qui ci riferiamo sarà più avanti esplicitato)
  6. viviamo l’esperienza di cosa produca ricevere e dare feedback, secondo una specifica modalità ed intenzione.

È questo “vivere e fare esperienza”, nella e della relazione di counseling, che attiva e/o rilancia i processi di sviluppo delle nostre potenzialità, facendocele riconoscere e spingendoci a valorizzarle, usandole come chiavi di gestione positiva delle difficoltà che stiamo affrontando.

Chiediamo aiuto a un counselor per gestire difficoltà esistenziali affrontate con stati d’animo, atteggiamenti mentali e comportamentali a queste non adeguate.

Si tratta immancabilmente di “situazioni” caratterizzate da qualche cambiamento, che produce in noi conseguenze emotive vissute negativamente, di cui vorremmo liberarci, ma che (ahinoi!) involontariamente alimentiamo, sia con pensieri, visioni delle cose, immaginazioni variamente catastrofiche, sia con comportamenti reattivi e inopportuni, non all’altezza di quello che (ci) sta capitando!

Insomma, ancora una volta, alla base di tutto ritroviamo ciò che “Sentiamo”, “Pensiamo”, “Agiamo”, e il modo in cui lo facciamo interagire (soprattutto a nostra insaputa!).

Quelle che qui sono presentate come le “pratiche” di base del counseling, sono le “leve” che noi counselor utilizziamo per far fluire la relazione di counseling come processo di consapevolezza, che accompagnerà i nostri clienti a scoprire e a realizzare quei cambiamenti di stato d’animo, di pensieri e di comportamenti di cui necessitano per approdare ad una positiva gestione dei problemi che stanno vivendo.

L’uso creativo di queste “leve” è quello che qui chiamiamo “Yogging”, lo “Yoga S.P.A.”, lo “Yoga del Sentire, del Pensare, dell’Agire”!

Lo yogging è l’anima del nostro fare counseling.

È quel nostro saper stare con, e animare, ciò che sentiamo, pensiamo e facciamo, per renderlo sempre più chiaro alla nostra coscienza; una coscienza che saprà così:

  1. indirizzarci verso i cambiamenti necessari del nostro pensare ed agire,
  2. portarci ad una più sana ed efficace gestione di ciò che ci sta mettendo in difficoltà,
  3. accompagnarci con un sentire che da più accettabile diventerà sempre più gradevole.

Ciò che viviamo e di cui facciamo esperienza in una relazione di counseling può accadere solo in una relazione di counseling, o in una relazione che ne riproponga le stesse forme e gli stessi contenuti.

Insomma, il counseling è un’attività professionale che necessita di uno specifico setting e di pratiche interattive, relazionali, agite in un tempo presente, in presenza contemporanea di counselor e cliente.

Questa precisazione vale:

  1. sia per contrastare il semplicismo (e la stupidità!) di chi crede che essere counselor ci obblighi a non giudicare mai, ad essere sempre accoglienti e ad accettare ogni tipo di merda che ci gira intorno;
  2. sia per affermare l’identità del counseling come attività professionale specifica, basata su di un particolare modo di stare in, e gestire, la relazione interpersonale d’aiuto; un modo basato  su un insieme di pratiche specifiche, attivate creativamente, alla bisogna; un modo che qui proponiamo di chiamare “Yogging”, lo “Yoga S.P.A.”, “Yoga del Sentire, del Pensare, dell’Agire”.

Di ciascuna di tali pratiche (ACCOGLIENZA, ASCOLTO, OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE, PRESENZA, SPOLA, FEEDBACK), proporremo una disanima ad hoc, in questo capitolo.

Il counseling, come “architettura di pratiche”

ASCOLTO. ACCOGLIENZA. SPOLA. FEEDBACK. OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE. PRESENZA.

Il counseling è una relazione interpersonale, che funziona come leva di attivazione e sviluppo di nuovi stati di consapevolezza, che mettono le persone in condizione di meglio affrontare le difficoltà esistenziali che stanno vivendo.

Per chi si rivolge a un counselor, e con lui fa counseling, lo sviluppo di questi nuovi stati di consapevolezza sono il frutto più saporito dell’esperienze che vive nella relazione di counseling; esperienze che sono rese possibili dalle “pratiche” che il counselor mette in atto nella relazione di counseling.

Le “pratiche” dell’accoglienza, dell’ascolto, della spola, del feedback, dell’osservazione non giudicante e della presenza, per il modo in cui sono messe in atto ed utilizzate da noi counselor, sono l’architettura del nostro fare counseling. Sono la sua risma, il suo incedere, il suo marchio, la sua unicità, la sua qualità. Sono ciò che lo rendono possibile e così efficace.

Nell’analizzare le “pratiche” che il counselor mette in atto, con il proprio fare counseling, quelle da cui voglio partire sono l’ascolto  e l’accoglienza, perché:

  1. l’ascolto, o meglio sarebbe dire: il mettersi in ascolto, è il primo atto che un counselor compie, per dare il via al proprio fare counseling, ed è la pratica che lo accompagna per tutto il suo corso;
  2. l’accoglienza è la pratica di stare con ciò che, stando in ascolto, sentiamo; accogliamo ciò che ascoltiamo, se lo teniamo con noi, insieme agli effetti che ci fa, facendone quindi esperienza.

Andiamo per ordine.

Innanzitutto, noi counselor ci mettiamo in ASCOLTO.

Cosa vuol dire?

Vuol dire che ci concentriamo su ciò che sentiamo; rivolgiamo cioè la nostra attenzione su noi stessi, sulle nostre sensazioni fisiche, su ciò che ci accorgiamo di provare: emozioni, sentimenti e ogni “propriocezione”, ogni nostra percezione sensoriale, dal “dolorino” che sentiamo al ginocchio destro alla contrattura sotto la scapola sinistra, dal languore allo stomaco alla speranza di riuscire a fare un buon lavoro con il nostro cliente, eccetera, eccetera.

Metterci in ascolto vuol dire concentrarci sul nostro sentire e accorgercene!

Vuol dire prestare attenzione a ciò che sentiamo, per arrivare a riconoscerlo e a dargli un senso.

Quando faccio counseling, mettermi in ascolto vuol dire rivolgermi su me stesso, prestare attenzione a quello che sento, con particolare riferimento all’effetto che mi fa il mio stare col cliente, il mio stare in relazione con lui, con ciò che sta portando di sé, con ciò che mi sta dicendo, con i modi con cui lo fa, con ciò che sta facendo, con i contenuti dei suoi racconti e con i personaggi che li animano.

Ma a nulla servirebbe mettermi e stare in ascolto se non accogliessi quello che sento, se non accogliessi l’effetto che mi fa, se non accogliessi ciò che mi capita nello stare in relazione col mio cliente e nel gestirla.

Ecco allora che l’ACCOGLIENZA di cui stiamo parlando è la nostra capacità di “stare” con gli effetti emotivi-sensoriali del nostro ascolto, la capacità di tenere con noi ciò che stiamo provando, di non respingerlo, evitarlo, rifuggirlo.

Provo a rendere più chiaro cosa intendo, ricorrendo a una metafora.

Immaginiamo che ci suonino alla porta. Apriamo e scopriamo che una persona cara è venuta a trovarci. La facciamo entrare e accomodare. Ci sediamo con lei e stiamo con lei. Chiacchieriamo, beviamo qualcosa. Passiamo del tempo insieme.

Questa è accoglienza.

Facciamo entrare la persona, ma non stiamo con lei, la facciamo accomodare in salotto e noi ci rintaniamo in un’altra stanza: questa non è accoglienza!

Apriamo la porta. Vediamo chi è. Non ci piace. Richiudiamo la porta invitando la persona ad andarsene.

Questo è rifiuto, respingimento; l’opposto dell’accoglienza.

Come possiamo dire di accogliere la persona che suona alla nostra porta, se la facciamo entrare e stiamo con lei, così possiamo dire di accogliere ciò che sentiamo, se ascoltandolo ci accorgiamo di cos’è e ce lo teniamo, stiamo con ciò che stiamo sentendo, soprattutto quando ciò che stiamo sentendo non ci piace:

  • paura? tristezza? ansia? insofferenza?
  • l’intera gamma di emozioni che proviamo quando qualcuno ci rifiuta o non si prende cura di noi, come vorremmo?
  •  cos’altro?

Ecco, il nostro fare counseling ha a che fare con il nostro stare nella relazione con il nostro cliente, facendo tesoro di ciò che, nella e dalla stessa relazione, accogliamo.

Quella dell’accoglienza non va quindi considerata (solo gli sciocchi lo fanno) come una caratteristica inestricabile della personalità del counselor, fino a pensare che un counselor non possa essere considerato tale se non è sempre accogliente, sia quando fa counseling, sia in ogni circostanza della propria vita socio-relazionale.

Accogliere vuol dire far entrare dentro di sé ciò che viene da fuori e tenerselo.

Accogliere vuol dire anche tenere con sé ciò che ci accorgiamo risiedere in noi.

Solo un ignorante, o un imbecille, potrebbe pensare che per qualcuno possa (o addirittura debba) essere doveroso far entrare dentro di sé, e tenerselo, chiunque e la “qualunque”!

E se quello che entra in noi fosse velenoso o tossico, che facciamo?

L’accoglienza del counselor è quella di far entrare in sé, e tenerselo contingentemente, ciò che prova nello stare col proprio cliente e con tutto ciò che questi porta con sé, nella relazione di counseling.

Questa pratica è indispensabile per provare empatia, senza la quale non ci sarebbe counseling.

L’accoglienza di noi counselor è una pratica che per essere messa in atto necessita del nostro ascolto, inteso come ascolto di ciò che proviamo nello stare con quello che ci capita a stare col cliente e con quanto ci propone, volontariamente o meno.

Quindi:

  1. ci mettiamo in ascolto e accogliamo quello che, propriocettivamente, sentiamo,
  2. stiamo con quello che sentiamo, per “assaporarne” il “gusto”, riconoscerne il valore e il senso,
  3. stiamo con ciò che ci capita (sul piano emotivo-sensoriale e su quello del pensare) nel diventare, immaginariamente, l’altro (il nostro cliente), immedesimandoci in ciò che ci racconta;
  4. stiamo con quello che sentiamo, identificandoci/immedesimandoci, alternativamente, nel nostro cliente e in chi partecipa agli accadimenti di cui ci parla.
  5. Ogni volta che ci accorgiamo di sentire qualcosa, ci respiriamo dentro; guidiamo cioè, immaginariamente, il nostro respiro proprio lì, in quei luoghi del nostro corpo dove alberga quel nostro sentire; per assumerne migliore confidenza.
  6. Quando ci è chiaro cosa stiamo provando (quale sensazione fisica? Quale emozione o sentimento?), ci chiediamo: “questa cosa che sto sentendo cosa mi dice? A cosa la devo? Cosa me la produce? Che senso ha?
  7. Facciamo cioè la “SPOLA”, tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo e, per questo, è indispensabile saper distinguere quello che sentiamo da quello che pensiamo:
    1. Quando c’è chiaro ciò che sentiamo, ci rivolgiamo al nostro pensare per indagare il senso di ciò che stiamo sentendo (esempio: mi accorgo di provare risentimento; mi chiedo cos’è che me lo fa provare? Verso chi è rivolto questo mio risentimento? Cosa me ne posso fare?)
    1. Quando c’è chiaro cosa stiamo pensando, ci rimettiamo in ascolto, chiedendoci: “questa cosa che sto pensando, come mi fa sentire?”
  8. Facciamo la spola tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo e facciamo la spola tra tutti i soggetti in campo: noi stessi, il cliente, i protagonisti dei suoi racconti. Questa spola consiste in un processo di continue identificazioni/immedesimazioni e disidentificazioni tra tutti i soggetti in causa, presenti in carne e ossa o immaginariamente. Ogni identificazione ci serve per fare la nostra esperienza di cosa possa capitare a essere quella persona lì, in quelle condizioni lì, che vive quegli accadimenti lì. Per ogni identificazione facciamo la spola tra ciò che sentiamo e ciò che pensiamo.
  9. Le esperienze che così faremo saranno l’oggetto dei nostri FEEDBACK.

Se il nostro fare counseling fosse un gioco di carte, il nostro modo di dare i feedback sarebbe l’ “asso pigliatutto”.

Il feedback è lo strumento, fatto di parole magiche che aprono il cuore del nostro cliente, gli fanno scorrere fluentemente il sangue e armonicamente il respiro, irradiando le sue terminazioni nervose e cerebrali di quell’energia emotiva di cui necessita per permettersi più sane, adeguate e funzionali organizzazioni di pensiero, che muoveranno comportamenti più capaci di meglio fronteggiare ciò che lo sta mettendo in difficoltà.

Nel nostro modo di fare counseling, i feedback che diamo ai nostri clienti sono:

  1. l’espressione di cosa ci siamo accorti di sentire, facendo la spola tra tutte le parti che il cliente ha messo in campo, con i suoi racconti e con i modi che li hanno accompagnati;
  2. la dichiarazione del senso e dei significati che per noi quel sentire ha rappresentato;
  3. un proposta di confronto sul sentire del cliente e sui suoi possibili significati.

Per esplicitare il senso ed il valore di quanto fin qui esposto, propongo, a mo’ d’esempio, lo stralcio di una sessione di counseling, da me gestita alcuni giorni or sono.

Il counseling è fatto a una ragazza di 25 anni, che mi chiede aiuto sul da farsi con il suo fidanzato.

Alla ragazza assegniamo un nome di fantasia: Lucia.

Io, invece, mi propongo col mio nome di battesimo: Domenico.

  • Domenico: ciao Lucia, cosa ti capita?
  • Lucia: sono molto confusa e non so cosa fare; sono arrabbiata con Renzo, non sopporto il suo abbattersi continuamente ed essere sempre così pessimista e insicuro.
  • Domenico: ah! ma sta succedendo qualcosa in particolare?
  • Lucia: succede che, dopo aver passato tutto l’anno scorso a cercare un lavoro e nessuno andava bene, dopo aver persino pensato di ritornare al paese, finalmente tre mesi fa ne trova uno che sembra poter andare, ma deve trasferirsi da Torino a Pinerolo e questo non va bene, poi lo pagano poco e questo non va bene, poi gli fanno fare delle mansioni che non sono proprio quelle per cui ha studiato, poi lo sobbarcano di lavoro e fa un orario troppo lungo, poi è un posto dove non potrà fare carriera, poi insomma non c’è niente che vada bene e tutto questo lamentarsi, questo pessimismo, questa insicurezza, mi abbatte e non lo sopporto, al punto che gli ho detto che forse dovremmo prenderci una pausa …

Lucia è una ragazza volitiva. Neolaureata in scienze motorie, si sbatte da mattina a sera tra corsi di aggiornamento professionale e lavori precari vari. È venuta a vivere a Torino, dalla Puglia, per studiare e lavorare e per stare vicino al suo fidanzato, che, di pochi anni più grande, s’è mosso prima di lei, per laurearsi al Politecnico di Torino e, anche lui, giocarsi maggiori chance di affermazione lavorativa, di quelle che avrebbe avuto al suo paese.

Sono due giovani adulti alle prese con i naturali turbamenti emotivi di chi affronta le fatiche, le incertezze, le difficoltà di realizzazione personale, collegate alla propria sistemazione professionale, residenziale, affettiva, relazionale.

  • Domenico: beh … a vedertelo dire così, tra le lacrime, direi che questa cosa deve farti tanto soffrire!
  • Lucia: sì … non sopporto che Renzo si comporti così, ma pure l’idea di lasciarci non è che sia meglio, non so se saprei stare senza di lui.
  • Domenico: parlami un po’ di voi, come vi siete conosciuti? Da quanto tempo state insieme?com’è il vostro rapporto? Com’è lui?
  • Lucia: mah guarda ci conosciamo da quand’eravamo piccoli, le nostre famiglie sono amiche, paesane; lui è un po’ più grande di me; pensa che lui mi piaceva da quand’ero ragazzina e lui non mi filava, perché diceva che ero piccola; poi sono cresciuta e lui ha cominciato a farmi il filo; io all’inizio non ero sicura di volerlo, poi, invece, ci siamo messi insieme; è stato il suo attaccamento, la sua insistenza, proprio mi voleva e a me questa cosa mi piaceva.
  • Domenico: uhmm … insomma la sua sicurezza per te è proprio importante, a quanto pare!
  • Lucia: sì … è vero! Non ci avevo pensato, che lui mi piaceva e mi piace quando è sicuro di quello che vuole e di quello che fa.
  • Domenico: ascolta Lucia e tu? In materia di sicurezza, di tua sicurezza, come sei messa?
  • Lucia: io non sono sicura di niente! Ma vado avanti sempre e comunque, perché così si deve fare!
  • Domenico: uhmm … torneremo su questa cosa dell’insicurezza; ora dimmi ancora di Renzo, cos’altro ti piace di lui?
  • Lucia: mi piace che mi vuole bene, si preoccupa per me, si sforza sempre di farmi contenta ed è molto paziente con me; è uno che si è impegnato a studiare e poi s’è impegnato, e continua a farlo, per trovare una buona sistemazione lavorativa; poi è un ragazzo serio, ha sempre avuto intenzioni serie con me; da un po’ di tempo ha cominciato a propormi di andare a vivere insieme.

Lucia l’ho conosciuta due anni or sono. Avevamo fatto un ciclo di counseling, una mezza dozzina di incontri. Attraversava un periodo di forte stress e ansia, collegato alla conclusione dei suoi studi universitari.

Stava finendo di scrivere la tesi, sostenere gli ultimi esami, continuare a lavorare in un’associazione sportiva, che le richiedeva tanto impegno nonostante la pagassero poco, e aiutare mamma e papà a prendersi cura di un fratello con problemi psichiatrici.

Insomma c’era di che preoccuparsi e aver paura.

Lucia aveva paura di non farcela a superare l’ultimo esame, con il voto necessario per garantirsi non ricordo bene quale media, indispensabile per poter accedere a non so più quale concorso, cui si riprometteva di iscriversi.

Lucia è una “prima della classe”. Sempre promossa con voti altissimi, sin dalle scuole elementari, sempre lì a darsi da fare, a non lasciare nulla di intentato per riuscire ad ottenere quello che tanto desidera: una buona-sicura sistemazione professionale, che suo fratello e i suoi genitori stiano bene, che col suo fidanzato le cose vadano per il meglio, sotto tutti i punti di vista.

Lei non si risparmiava certo per garantirsi tutto ciò e mi dava l’impressione di vivere questa prospettiva come “obbligata”, con un senso di responsabilità personale assoluta, perché tutto ciò non potesse che avvenire!

L’assunzione di tale obbligo, come proprio imperativo, da quello che mi aveva raccontato dei suoi genitori e del rapporto che aveva con loro, sembrava provenire proprio da lì, dall’alveo familiare.

Lucia è una ragazza che ha introiettato i valori dei suoi genitori: l’impegno personale, il dover primeggiare, l’ordine preciso delle cose, dove tutto deve andare bene, tutto deve avere una buona riuscita e le proprie aspettative non possano che essere rispettate.

Così è per il suo ambiente familiare, così è per lei, al punto da pretenderlo, con una determinazione che non ammette alcuna fuoriuscita, da quel modello ideale cui inquadra la propria esistenza.

Si potrà comprendere, quindi, il fatto che si sentisse “sotto pressione”, in modo particolare, allora, che si approssimava un traguardo importante della sua vita: la laurea.

Quell’ultimo esame Lucia l’ha superato alla grande, così come alla grande si è laureata.

L’è servito fare quel ciclo di counseling.

L’è servito riconoscere quanto la propria paura che qualcosa potesse andare non proprio come lei voleva, fosse alimentata dal suo ritenerlo obbligatorio; ma le conseguenze che immaginava, se le cose non fossero andate come “dovevano” andare, meglio esplorate nella relazione di counseling che stavamo condividendo, non reggevano le prospettive esistenziali catastrofiche che paventava.

Insomma, in quei sei incontri di counseling, Lucia scopre di poter prendere le cose con una certa leggerezza d’animo, senza per questo dover rinunciare ai propri desideri.

Certo, un ciclo di counseling di sei incontri l’era servito, allora, per alleggerire il carico di responsabilità che s’era assegnata, il cui peso rischiava di schiacciarla.

Questo l’aveva aiutata a meglio affrontare quel suo momento di particolari difficoltà, uscendone positivamente, secondo le proprie aspettative.

Ma quel suo modo di affrontare la vita di petto, pretendendo che tutto andasse secondo i propri desideri, sforzandosi di tenere tutto sotto controllo perché questo accadesse, dopo due anni, lo rivedevo tutto!

  • Domenico: Lucia, quindi mi stai dicendo che tieni a bada la tua insicurezza andando sempre “avanti tutta”, solo “perché così si deve fare”?!
  • Lucia: e cos’altro potrei fare?!
  • Domenico: non so risponderti, se mi fai una domanda così diretta, ma posso darti un mio feedback, sull’intera vicenda che mi stai raccontando, di te e di Renzo … Renzo è un giovane ingegnere alle prese con le difficoltà tipiche di chi inizia una propria carriera professionale; mi hai detto che ci tiene tanto a te ed ha intenzioni serie; non mi sembra strano che possa, soprattutto coi tempi che corriamo, ritrovarsi preoccupato e possa avere addirittura paura di non farcela a sistemarsi lavorativamente e, quindi, ad assicurarsi la possibilità di stare con te, come vorresti tu. Da quanto mi hai raccontato di lui, comunque, Renzo è uno che non si tira indietro; magari si lamenta ed esterna le sue preoccupazioni … chissà … magari sperando in qualche rassicurazione da parte tua, magari ne ha bisogno?! Chissà?! questo potrai dirlo tu.

Certo, se mi identifico in te, che per far fronte alle tue insicurezze hai deciso di tacitarle e non dargli peso, andando sempre e comunque, come un caterpillar, avanti tutta, “perché così si deve fare”, ecco, mi vedo a stringere i denti e a chiudere gli occhi, per non sentire e vedere la mia paura di non farcela e, inopinatamente e inopportunamente, invece, Renzo mi sbatte in fronte la sua paura, che amplifica la mia ed io non ce la faccio, così, a farvi fronte!

Insomma, mi sembra che viviate entrambi le vostre paure e le vostre insicurezze, ma tu le gestisci in un modo, lui le gestisce in un altro; lui le esterna, tu no; solo che il suo modo di esternarle, aiuterà lui a sopportarle, ma appesantisce te di un carico emotivo che, così, per te, diventa insopportabile. Che ne dici?

Lucia mi guarda ammutolita, con un’espressione che, da triste, si apre in un sorriso e in uno sguardo che parla di “scampato pericolo”!

  • Lucia: beh … vista così, mi sembra meno grave …

Ma lasciamo questa sessione di counseling con Lucia e rivolgiamoci alle “pratiche” di counseling cui mi sono appoggiato, per svolgerla.

Innanzitutto l’ascolto.

Da quando Lucia ha cominciato a raccontarmi la sua “storia”, stando in ascolto e concentrandomi su ciò che sentivo, mi sono subito accorto del mio identificarmi in Renzo.

Diventando Renzo, ho provato la fatica e la stanchezza della ricerca di un lavoro, quando trovare il lavoro voluto è una vera e propria impresa! Ma un’impresa di quelle che fanno disperare, per quanto difficile sembra il poterla realizzare. Una disperazione che ha lo spessore della paura; paura di non riuscire a farcela a compiere questa impresa; paura del fallimento e delle sue conseguenze.

Così mi sono visto lamentarmi della cosa e questo non m’è piaciuto, non è piaciuto a me, Domenico.

Sono diventato Lucia.

Ho sentito affanno e ansia; l’affanno di andare “avanti tutta” sempre e comunque, per coprire l’ansia che m’arriva dalla paura che, se non faccio così, anch’io non ce la faccio a sistemarmi, col lavoro, con gli affetti, vecchi e nuovi.

Ma questo affanno e ansia l’ho sentito perché mi sono ritrovata schiacciata dall’ulteriore fatica di dovermi preoccupare anche per Renzo; è questo è troppo, per me.

Perché da Renzo mi aspetto aiuto e soccorso e non di doverlo aiutare e soccorrere io.

Così son ritornato in me ed ho visto Lucia, di fronte a me, che piangeva.

Ho provato, io, Domenico, compassione, tenerezza e ammirazione, per questa ragazza che così volitivamente affronta la vita.

Poi, però, s’è affacciata in me, Domenico, una certa insofferenza.

Ho visto Lucia come una gran rompiscatole, una di quelle persone che pretendono sempre la perfezione, da loro stesse e dagli altri, e per questo diventano insopportabili o, per lo meno, con cui mi è difficile stare, proprio perché son sempre lì a chiedere più di quello che posso, ho voglia, riesco a fare e a dare.

Tutti questi sentimenti, queste emozioni, queste “visioni”, fatte di pensieri e giudizi, tutto questo che raccoglievo, stando in ascolto, facendo la spola tra i sentimenti e i pensieri che scaturivano dalle varie mie identificazioni, tutto questo l’ho accolto, l’ho tenuto con me, il tempo che mi diventasse tutto chiaro; il tempo per riconoscere chiaramente quello che stavo sentendo e per riconoscerne il senso-significato che per me assumeva.

Gli ho dato valore; non l’ho giudicato, né buono, né cattivo, né giusto, né sbagliato.

Era tutto lì con me; mi permetteva di comprendere tante cose.

Il mio feedback, allora, è diventato la mia condivisione di tutto questo mio sentire e del senso-significato cui, a me e per me, questo mio sentire rimandava e raccontava.

Il feedback è la mia capacità di condividere tutto ciò, rendendo chiaro all’altro ciò che ho provato e il senso che per me la cosa ha avuto, senza confondere i piani del sentire e del pensare, senza mischiare ciò che ho provato io, come Domenico, da ciò che ha provato l’altro o ho provato io, diventando altro (il cliente e/o i protagonisti dei suoi racconti).

Lo stesso con i pensieri.

Questa capacità è ciò che dà valore ai miei feedback, rendendoli leva del fluire dialogico-processuale della mia relazione di counseling (cioè: io do il mio feedback, quindi accolgo la reazione del cliente e, da questa, si va avanti).

Il feedback, nel counseling, è una struttura informativa, costruita intorno al sentire del counselor, che risuona del sentire del cliente e di quello di chi è coinvolto nei suoi racconti.

Si comincia sempre dal sentire, quando non c’è bisogno di un preambolo che renda più chiaro questo sentire, si prosegue con la dichiarazione del valore e il senso che questo sentire ha e/o ha avuto, per chi quel feedback ha espresso.

Si conclude con una semplice domanda: “che te ne pare?”, “come ti sembra?”, “che effetto ti fa?”, “ti ci riconosci in qualche modo o è proprio solo roba tutta mia?” e via dicendo.

È fondamentale che la formulazione distingua al meglio ciò che è materia del sentire da ciò che è materia del pensare; così come ciò che riconosciamo come nostro da ciò che vorremmo esplorare come un qualcosa che potrebbe riguardare l’altro.

Faccio un altro esempio, che traggo da un caso avvenuto con un’allieva della mia scuola, durante una sessione di formazione in cui si lavorava su di un counseling fatto a un ragazzo, Michele, che non sapeva come muoversi nei confronti di un suo insegnante, che, a suo dire, lo sottoponeva a ingiustificate critiche e rimproveri.

Riporto come esempio il dialogo tra me e Aurelia, l’allieva in questione, partendo da lei, che dà il suo feedback, su quanto raccontato da Michele:

  • Aurelia: io ci vedo la paura e la rabbia di Michele per il suo mancato riconoscimento, cioè non viene soddisfatto il suo bisogno di riconoscimento ……
  • Domenico: Aurelia questo non è un feedback, è un’interpretazione!
  • Aurelia: scusa Domenico, ma se io ho sentito la paura di non essere vista, ovviamente legata a me, ai miei vissuti personali; se Michele diventa il mio specchio e sveglia in me questo sentimento, non è anche che pure lui lo vive? Dove sta il confine tra il sentire e l’interpretare? Per verbalizzare il sentire c’è per forza un passaggio mentale, in questo caso di interpretazione; come se ne viene fuori?
  • Domenico: abbiamo bisogno di partire dal sentire e poi prestare attenzione alla forma della nostra comunicazione, esplicitando a chiare lettere cos’è che riguarda il sentire e cos’è che riguarda il pensare, in questo caso, l’interpretare; ma a nulla servirebbe se non sapessimo stare nei nostri confini; cioè mantenere la posizione emotiva-cognitiva che quello che condividiamo nel feedback è un qualcosa che riguarda sicuramente noi, pur essendo un qualcosa che proponiamo come materia potenzialmente riguardante anche l’altro. Sarà da come l’altro vi corrisponderà che potrà emergere un confronto chiarificatore su quanto di ciò che proponiamo col nostro feedback possa riguardare anche lui. Insomma, non tocca a noi counselor dire ai clienti cosa provano; noi gli diciamo cosa proviamo noi e come questo possiamo-sappiamo collegarlo a quanto l’altro ci racconta; questo nostro incedere è uno dei nostri sostegni al fluire dialogico-processuale della relazione di counseling, che è il contesto esperienziale che aiuterà il cliente a fare le proprie scoperte e a farne buon uso.
  • Aurelia: ok Domenico, però adesso mi dici come avrei potuto dare il mio feedback
  • Domenico: d’accordo Aurelia, avresti potuto formularlo, tra il più e il meno, rivolgendoti direttamente a Michele in questi termini: “Immedesimandomi in Te, mi sono accorta di provare paura; allora mi sono chiesta ‘cos’è che mi fa paura?’; la risposta è stata: ‘non essere vista; ho paura di non essere vista’; rendermi conto di questa mia paura, mi fa incazzare e mi fa incazzare anche che qualcuno, per me importante, non mi veda, non si preoccupi di me, si faccia i cavoli propri e basta. Questo non lo posso sopportare, mi spaventa e mi fa arrabbiare. Tutto questo mi parla del mio bisogno d’essere riconosciuta, che, evidentemente, è un bisogno che non sono ancora riuscita a soddisfare. Michele, come sei messo col tuo bisogno d’essere riconosciuto?”.

E a te, Aurelia, come sembra messa così?

  • Aurelia: beh … certo, in questo modo è chiaro che sto parlando di me e che mi propongo come termine di confronto, senza dare per scontato che Michele non abbia risolto il suo bisogno di riconoscimento; insomma gli faccio da sponda, lasciandogli la libertà di scegliere come muoversi nella relazione con me.
  • Bene Aurelia. Questo è il nostro modo di fare counseling.

Nel nostro modo di fare counseling, il feedback che diamo al nostro cliente è ciò che, permettendo una sana e funzionale integrazione di sentimenti e pensieri, muove in lui la migliore risposta possibile, sul piano del proprio sentire e su quello del proprio pensare, con particolare riferimento all’immaginazione e alla progettazione di quello che egli stesso potrebbe fare, di più opportuno ed adeguato, per una migliore gestione delle problematiche che sta vivendo.

La nostra capacità di dare “buoni” Feedback, come abbiamo visto, è una funzione diretta del nostro saper stare in Ascolto, saper Accogliere e fare la Spola.

Quello che ci rimane da sottolineare, a questo punto, è che il nostro modo di fare counseling non sarebbe possibile senza le “pratiche” dell’ OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE e della PRESENZA.

Intorno alla prima, quella dell’osservazione non giudicante, circola una certa quantità di malintesi, il più insulso è quello che dice che “noi counselor non giudichiamo”.

  • saper osservare il cliente, e quanto capita nella relazione di counseling, senza giudicarlo;
  • saper osservare, con uno sguardo e un atteggiamento che esclude il giudizio, ciò che, nella relazione di counseling, il cliente porta di se stesso e del suo mondo;
  • saper stare con il proprio e l’altrui sentire-pensare(giudicare)-agire, tenendo sospeso il giudicarlo e senza farsi influenzare dall’altrui giudizio;

tutto questo non impone, in alcun modo, al counselor, l’obbligo di non giudicare.

Insomma, non è affatto vero, ed è stupido pensarlo, che il fare counseling escluda la possibilità di giudicare.

Saper fare counseling non prevede l’obbligo di non giudicare, ma la capacità di scegliere di stare, quando necessita, con se stessi e con gli altri, in modalità relazionali che disattivano le influenze nefaste del giudizio.

Questo “saper stare” con se stessi e con l’altro, in modalità relazionali che disattivano le influenze nefaste del giudizio è uno degli aspetti, tra i più importanti, che individuano il counseling e la sua qualità.

Più precisamente, il saper stare in ascolto, come pratica ordinaria del proprio fare counseling, il rivolgersi innanzitutto al proprio “sentire”, in ogni circostanza saliente della relazione di counseling, con particolare riferimento a ogni occasione  in cui il cliente e/o il counselor stesso si ritrovino alle prese con una qualche forma di giudizio, è l’aspetto che individua il saper far counseling e la sua qualità, non certo il “non giudicare”.

Il giudicare è un’attività mentale che si declina in molteplici funzioni, che, nell’esistenza umana, hanno la tendenza ad automatizzarsi.

Basta consultare un buon dizionario della lingua italiana, alla voce “Giudizio”, per apprendere come tale termine possa indicare:

  1. L’attribuzione di un oggetto a una categoria (oggettiva o soggettiva), ovvero un’opinione personale su tale oggetto.
  2. L’esito delle nostre attività di analisi, valutazione e scelta che ci permettono di classificare soggetti, cose e situazioni, di stabilire connessioni logiche e relazioni di causa-effetto, tra gli accadimenti, reali o immaginari.
  3. L’esito di ogni nostra riflessione sugli accadimenti che, in qualunque modo, ci riguardino, per ricondurli il più armonicamente possibile alle nostre esigenze, siano questi bisogni, desideri, volontà.
  4.  La formulazione sintetica dei contenuti e del valore di un’esperienza, che serve, anche, all’accrescimento del sapere.
  5. Uno status individuale e/o sociale: l’età del giudizio
  6. La qualità di un oggetto: il dente del giudizio
  7. Un cambiamento di condizione personale: mettere giudizio, ravvedersi
  8. Un verdetto tribunalesco: innocente / colpevole
  9. Un procedimento: essere sotto giudizio
  10. Un valore e/o un senso culturalmente determinato e i suoi correlati emotivi/sentimentali.

Insomma, non giudicare è impossibile e, in mille situazioni (e molte di queste in scena nelle relazioni di counseling) aver giudizio e buone capacità di esercitarlo é indispensabile.

Ma noi sappiamo che giudicare può equivalere a chiudere il rubinetto delle idee, che avremmo potuto continuare a sviluppare, e quindi farci, su ciò che, ormai, abbiamo giudicato.

Noi sappiamo che al giudicare, facilmente, si correlano reazioni emotive e comportamentali fisse e ripetitive, che non muovono al cambiamento.

Giudicare può togliere ogni motivazione alla ricerca di novità e/o di cose nascoste, può uccidere il gusto dell’esplorazione di nuove possibilità, relativamente a ciò che, ormai, è passato in giudicato.

Per questa ragione, chi fa counseling, fa tre “cose” particolari:

  1. sta molto attento alle forme di giudizio e ai suoi contenuti, cui lui stesso ed il suo cliente ricorrono;
  2. le gestisce;
  3. agisce il proprio stare in relazione con modalità che prevengono e diminuiscono di gran lunga l’entrata in scena del giudizio e dei suoi perniciosi effetti, ovvero fa un uso consapevole delle proprie funzioni giudicanti.

Facciamo un esempio.

Viene da me un cliente. Ha un’aria dimessa, la voce bassa, sul volto ha dipinta la tristezza.

Individuare la sua aria dimessa, la sua voce bassa, la sua tristezza, sono un’operazione in sé e per sé giudicante: individuo dei segni per un loro valore significante precostituito nella mia mente: per l’aria dimessa, un abbigliamento casuale e trasandato e lo sguardo costantemente rivolto verso il basso; per la voce bassa, un tono acustico sottile e tenue; per la tristezza del volto, la piega all’ingiù degli occhi e della bocca; che mi portano a classificare l’aria del mio cliente come “dimessa”, la sua voce come “bassa”, la sua faccia “triste”.

“Classificare” è un’operazione indiscutibilmente giudicante:

giudico “dimessa” l’aria del mio cliente, bassa la sua voce, triste la sua faccia.

Ma queste forme di giudizio posso trasformarle in “osservazione non giudicante” se le riconosco come giudizi e, invece di valorizzarle sul piano di qualsivoglia sviluppo deduttivo-associativo pseudo logico, le utilizzo come input per mettermi in ascolto, alla ricerca dell’effetto che mi fa lo stare con quell’aria dimessa del mio cliente, quella sua voce bassa e quella sua faccia triste.

Osservare senza giudicare è saper riconoscere, nel campo in cui rivolgiamo la nostra attenzione, oggetti, soggetti e accadimenti (ed è impossibile riuscirvi senza attivare una qualche forma di giudizio), stabilendo con essi una relazione che:

  1. escluda il giudicarli secondo criteri e logiche, precostituite, di causa-effetto (esempio: faccia triste = persona pessimista, oppure gli è successo qualcosa di brutto);
  2. sia strutturata sull’ascolto, l’accoglienza, il fare la spola tra ciò che ci ritroviamo a pensare e a sentire, facendo particolare attenzione al riconoscere ogni forma di giudizio, gestendola opportunamente, cioè riposizionandola sul piano del sentire (che vuol dire interrogandosi sul come ci fa sentire quel giudicare, nostro e/o altrui), affinché da questo possano muoversi istanze mentali di maggior valore e migliore funzionamento.

Insomma, il giudizio che aborriamo è quello sulle persone ed è quello di ragionare per relazioni di causa-effetto preordinate-classificate.

Giudicare è probabilmente la più abusata tra le attività mentali; è quella che più si presta alla sclerotizzazione nevrotica, che trova nel pregiudizio la sua forma più perniciosa.

Certe forme di giudizio (i pregiudizi, in generale, e ogni giudizio sulle persone, in particolare),  quando compaiono in una relazione interpersonale, ne ostacolano le possibilità di  sviluppo; per questo, nella relazione di counseling, che è un’esperienza organizzata in funzione degli sviluppi processuali che è in grado di portare avanti, certe forme di giudizio sono assolutamente da escludersi.

Il principio che un counselor non giudica andrebbe, almeno, riformulato nei seguenti termini:

  1. per un counselor viene prima il sentire;
  2. un counselor sa riconoscere le forme di giudizio e sa come gestirle;
  3. un counselor sa quanto sia pericoloso il giudicare, in ogni forma di relazione interpersonale, e sa anche quanto sia ineludibile, per questo si è formato su “pratiche”, il cui ricorso ha come effetto quello di diminuire di molto l’affacciarsi del giudizio e, quando questo accade, ha come effetto il permettere una sua opportuna gestione;
  4. un counselor, quindi, più di “non poter giudicare”, sa “cosa farsene del giudizio”, cioè sa “come gestirlo”;
  5. il counselor è una persona che vive una vita sociale complessa e articolata come tutti gli esseri umani;
  6. in mille situazioni relazionali, saper giudicare bene e in fretta, anche le persone (esempio: con chi abbiamo a che fare e/o a cosa possano servire certi comportamenti e da cosa dipendano certi pensieri), è una capacità importante, che ci aiuta a meglio affrontare situazioni complicate;
  7. nelle proprie relazioni di counseling, un counselor esclude, assolutamente, le forme di giudizio riguardanti le persone;
  8. relativamente al campo esistenziale che il cliente, con la propria narrazione, propone, e al setting in cui si svolge la relazione stessa di counseling, il counselor opera in corrispondenza del proprio esame e giudizio su ogni elemento e circostanza cui riconosce rilevanza significativa.
  9. il counselor, nel proprio modo di stare con se stesso ed in relazione con i propri clienti, per scongiurare le influenze nefaste del giudicare, fa affidamento sul proprio saper ascoltare, accogliere, fare la spola e dare feedback.

Come questo possa avvenire, lo presentiamo con un ESEMPIO:

Se ricevo un cliente che ha indosso una felpa visibilmente lisa, accorgermene e rilevarlo, tra me e me, è un’attività di “osservazione non giudicante” se non do corso a nessuna, relativa, deduzione giudicante del genere: “questa persona veste in modo trasandato, non si prende cura di sé”, oppure: “sicuramente non può permettersi una felpa nuova”.

È un’attività di “osservazione non giudicante” se il fatto, una volta rilevato, viene assunto come “significante” di “significati” non ancora dati, che  potranno rivelarsi interessanti solo se matureranno come frutto dei processi di consapevolezza il cui sviluppo sto facilitando con il mio fare counseling.

È un’attività di “osservazione non giudicante”se, accorgendomi del mio giudizio, rivolgo la mia attenzione su ciò che sto sentendo, in collegamento con il fatto che il mio cliente la stia indossando, qui, con me, invece di “giudicare” il mio stesso cliente, per il fatto di indossare una maglia lisa.

Per comprendere quanto sto affermando proviamo a seguire due possibili, differenti, processi, che potrebbero svilupparsi in collegamento del mio giudicare o meno.

GIUDIZIO

  1. Vedo la felpa lisa del cliente.
  2. Giudico il mio cliente povero, impossibilitato a comprarsi una felpa nuova
  3. Comincio a preoccuparmi del fatto che non potrà permettersi di pagarmi
  4. Mi distraggo e demotivo, perdo il contatto con il mio cliente e ogni possibilità che, con lo stesso, possa svilupparsi qualcosa di buono.

OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE

  1. Vedo la felpa lisa del cliente, ma la vedo che sono in ascolto.
  2. Il riconoscerla lisa è già una forma di giudizio, che potrà rivelarsi utile e funzionale, se ben gestita.
  3. Il mio osservare non giudicante, sostenuto dal mio stare in ascolto, mi fa vedere quello che c’è (la felpa lisa), ma, prima di farmi partire per tangenti mentali giudicanti, mi fa riconoscere quello che provo e cioè, ad esempio, curiosità per il senso che il portare una felpa lisa possa avere per il mio cliente: gli è particolarmente affezionato? È il capo d’abbigliamento che lo fa sentire più comodo? Preferisce la comodità personale e non é interessato al giudizio altrui? Ha perso interesse per il proprio abbigliamento, perché alle prese con istanze esistenziali per lui ben più importanti? (tanto per fare degli esempi!).
  4. Rimango quindi in ascolto; fiducioso del fatto che se la felpa lisa del cliente dovesse avere un qualche significato importante, o utile al lavoro di consapevolezza che stiamo svolgendo, questo emergerà nel corso del nostro stare nella nostra relazione di counseling.
  5. Non traggo conclusioni, lascio aperto il processo, pronto a beneficiare di tutto ciò che il suo fluire potrà portare di buono.

Ricapitolando, ci sono tre aspetti particolarmente importanti di cui tenere conto nel valutare il “valore” del giudicare:

  1. giudicare funziona come stop del fluire e svilupparsi di idee, pensieri e sentimenti; cristallizza il nostro “sentire” in emozioni e sentimenti scontati e ripetitivi; dà immancabilmente il via a comportamenti reattivi, anche loro scontati e ripetitivi, difficilmente sostiene sviluppi di apertura e cambiamento. Per questa ragione è così messo all’indice nel counseling, che è una relazione di tipo processuale, che, promuovendo il cambiamento, necessita di prospettive aperte, che rendano possibile la sperimentazione di nuovi stati emotivi, nuovi atteggiamenti mentali e nuove modalità comportamentali. Per questa ragione, chi fa la Formazione IN Counseling, invece di allenarsi a “non giudicare” (che è un’attività impossibile: non possiamo allenarci a “non fare” qualcosa, possiamo allenarci a “fare qualcosa”), si allena in specifiche e particolari pratiche, il cui esercizio riduce significativamente le influenze nefaste del giudicare.
  2. Ci sono forme di giudizio che sono utili e funzionali; sono quei giudizi che, classificando cose e oggetti, ci aiutano a gestirli meglio (la classificazione è, insieme a tante altre, una forma di giudizio). Esempio: vedere lo sporco della mia camicia e giudicarla sporca mi serve a decidere quando metterla a lavare. Altro esempio: giudicare pericoloso il muovermi da solo, nottetempo, in un certo quartiere della mia città, e agire di conseguenza, può salvarmi la vita. Altro esempio: in una sessione di counseling, giudicare inopportuno, in una determinata circostanza, rispondere a una domanda del cliente, che giudichiamo manipolante, ci aiuta a trovare buoni e funzionali modi di gestire quella sua domanda, affinché il nostro stare con lui sostenga lo sviluppo di adeguati processi di consapevolezza.
  3. E  ci sono forme di giudizio che sono assolutamente dannose e disfunzionali; sono i giudizi riferiti alla persona. Sono giudizi che ci pongono in categorie dell’essere dalle quali non possiamo uscire per giocarci le nostre possibilità di cambiamento. Sono giudizi che immobilizzano, chi li emette, in posizioni personali e dinamiche interpersonali che ostacolano ogni possibile evoluzione, cambiamento, miglioramento.

Il giudizio, però, è l’atto che mille volte ci serve per prendere una decisione sul da farsi, per noi stessi, con noi stessi, con gli altri.

Quando facciamo counseling, non giudichiamo mai il cliente, perché non tocca a noi decidere nulla su quello che lui potrà pensare e fare di se stesso e per se stesso.

A noi tocca aiutarlo a sviluppare i propri stati di consapevolezza e ogni giudizio sulla sua persona non farà altro che bloccarli e/o fuorviarli.

A noi tocca accompagnarlo, anche, ad arrivare a formulare propri giudizi su se stesso, e sulle proprie possibilità di buona gestione personale delle problematiche esistenziali che sta vivendo, in grado di aiutarlo a meglio affrontarle e, possibilmente, a risolverle.

Forse non servirà al cliente arrivare a giudicarsi capace di affrontare le proprie difficoltà?

Forse non servirà al cliente arrivare a giudicarle risolvibili?

E quando risolverle non fosse possibile, forse non servirà al cliente giudicare possibile trovare un qualche modo che potrebbe permettergli di accettarle e imparare a conviverci?

Anche a questi risultati si arriva, facendo counseling.

Facendo counseling arriviamo a scoprire che è cosa giudichiamo e il modo in cui lo facciamo che conta, non tanto il diktat del non giudicare.

Giudicare il valore delle cose (oggetti, sentimenti, pensieri, azioni, comportamenti) è indispensabile alla nostra esistenza, quindi anche al nostro fare counseling.

Giudicare le persone è controproducente, quando facciamo counseling, perché il counseling trae la propria funzionalità dal fluire di processi che vengono bloccati quando le persone vengono giudicate.

Quindi, il vero diktat che pone il counseling non è il “non giudicare”, ma stare con se stessi, e con l’altro, concentrati sul proprio sentire e su tutto ciò che si affaccia alla propria coscienza e ai propri sensi.

Tutta questa materia viene innanzitutto “osservata” dal counselor (alias “contemplata”), alla ricerca del riconoscimento di ciò che potrà rilevarsi potenzialmente utile allo sviluppo dei processi di consapevolezza cui stiamo partecipando, insieme al nostro cliente, nella nostra relazione di counseling.

Come e quanto questa potenziale utilità si svilupperà nel corso della nostra relazione di counseling, non è dato saperlo, fino a quando questo non dovesse accadere, perché dipenderà dagli sviluppi processuali della nostra relazione di counseling, sostenuti positivamente dal nostro saper “osservare in modo non giudicante”.

Osservare senza giudicare vuol dire assaporare gli effetti sensoriali del mettere a fuoco, con tutti i nostri organi di senso (dalla vista all’udito, dal tatto all’udito, dall’intero nostro sentire al complesso sistema delle nostre facoltà mentali), tutto ciò che è da noi stessi percepibile, nel qui e ora della nostra esistenza, nel campo e nelle condizioni in cui la stiamo vivendo.

Da tale messa a fuoco, immancabilmente, partiranno forme di giudizio, funzionali ai processi di consapevolezza che sosteniamo col nostro fare counseling.

La prima è quella del nostro individuare e mettere da parte, ciò che riconosciamo come potenzialmente utile al nostro fare counseling (cioè in grado di sostenere buoni sviluppi di consapevolezza, in noi e nel nostro cliente).

Esempio: il mio cliente parla di sé in terza persona; me ne accorgo perché presto attenzione alle forme della sua comunicazione (cioè le osservo); “giudico” la cosa interessante e confronto il cliente sulla stessa, ma lo faccio stando in ascolto, accogliendone gli effetti e facendo tra questi la spola.

Sarà quindi il mio saper “osservare senza giudicare”, quindi il mio stare in ascolto, accogliendo e facendo la spola (nei termini già proposti) tra ciò che nella nostra relazione di counseling va configurandosi (quindi anche ogni stessa forma di giudizio), che alimenterà le mie intuizioni, e quelle del mio cliente, circa il come muoversi per meglio fronteggiare le problematiche rispetto alle quali il mio cliente stesso mi sta chiedendo aiuto.

Il fare counseling è un’attività la cui “logica” è quella di appoggiarsi sul sentire.

Il lavoro di consapevolezza che un counselor porta avanti con i propri clienti mira a valorizzare le potenzialità di cui ciascuno di loro dispone per meglio affrontare le difficoltà esistenziali che stanno vivendo.

Concludendo:

Aiutiamo i nostri clienti a far migliore uso dei loro sentimenti, dei loro comportamenti e dei loro pensieri, aiutandoli a metterli meglio a fuoco e a scegliere di intervenire su di questi per produrre i miglioramenti che stanno cercando; fiduciosi che questo sia sempre possibile!

La nostra “logica” è che “non è indifferente da dove partiamo; per questo scegliamo di partire dal sentire” e di usare il “sentire” come funzione filtrante di ogni giudizio e/o forma di pensiero.

Il giudizio è un’attività che muove logiche consequenziali preordinate, che difficilmente riescono a promuovere forme di benessere (esempio: sei pigro, non farai mai niente di buono).

Per questo, nella relazione di counseling, ogni giudizio rivolto alla persona con cui interagiamo è da “giudicarsi” inopportuno e disfunzionale.

Vale la pena sottolineare, però, che stiamo parlando dell’operato del counselor che fa counseling; non del counselor in ogni propria circostanza esistenziale: anche un counselor può riconoscere uno stronzo (e come farlo senza giudicare?!) e corrispondervi conseguentemente!

Il giudicare una persona è “inopportuno e disfunzionale” in una relazione di counseling, che funziona grazie alla qualità di dinamiche interattive che quel giudicare preclude.

Ma il giudicare una persona può essere, invece, “opportuno e funzionale” in altri contesti esistenziali, soprattutto quei casi in cui precludere certe dinamiche interattive potrebbe essere fondamentale!

Insomma, il giudizio è una funzione mentale particolarmente potente; è un’istanza capace di muovere stati emotivi, forme di pensiero e comportamenti, che, una volta mossi, difficilmente potranno essere fermati e/o rielaborati, diminuendo, così, fortemente, ogni possibilità di cambiamento, che dovesse presentarsi necessaria.

Vediamo quindi, a mo’ di esempio, alcuni casi in cui il giudicare è particolarmente utile, anche in una relazione di counseling:

  1. quando riusciamo a mettere a fuoco il rapporto di causa-effetto tra una certa abitudine comportamentale del nostro cliente e le relative risultanze sociali (tipo: le dinamiche di esclusione sociale che vive in relazione alla sua tendenza a non esprimere i propri pensieri e le proprie volontà, ma ad arrabbiarsi quando non viene fatto ciò che lui stesso vorrebbe); in questo caso, chiedere al cliente: “in termini di utilità personale/sociale, come giudichi questo tuo comportamento?” potrebbe essere un richiamo alla funzione giudicante capace di promuovere sviluppi di consapevolezza particolarmente interessanti;
  2. quando analizziamo gli effetti e le interazioni di determinate azioni, pensieri e sentimenti, ricercandone migliori gestioni;
  3. quando rivolgiamo l’attenzione alle nostre scelte in materia di rapporti sociali ed affettivi (esempio: giudichiamo preferibile stringere rapporti interpersonali con persone che ci trattano bene e/o in grado di migliorare le condizioni della nostra esistenza).

Certo è che il giudizio che aborriamo è sicuramente il pregiudizio, perché è un’istanza che fagocita il nostro modo di vivere, marchiando tristemente l’intera nostra esistenza.

In altre parole: c’è una bella differenza tra un giudicare che si definisce “in fieri”, cioè come risultato di un processo che attraversa le proprie possibilità di sviluppo, un giudicare che si propone come frutto dei processi di consapevolezza che l’hanno fatto fiorire e maturare, e un giudicare come messa in atto di automatismi preordinati, psicologici e/o culturalmente determinati, cui corrispondono, invariabilmente, le stesse reazioni automatiche di sentimento, pensieri e comportamenti.

Per questa ragione noi counselor partiamo dal “sentire”.

Ci mettiamo in ascolto per riconoscere ciò che proviamo e, grazie a questo, avere una migliore percezione dei nostri bisogni, delle nostre priorità, delle nostre preferenze, del nostro contatto con l’ambiente.

Da tale migliore percezione traiamo input e ispirazioni in grado di meglio orientare i nostri pensieri e le nostre azioni, migliorandone gli esiti relativi al nostro e all’altrui benessere.

 “Viene prima il sentire” è la nostra parola d’ordine, perché sappiamo quanto non sia affatto indifferente da dove partiamo, per arrivare dove vogliamo arrivare, vale a dire a quegli stati di consapevolezza che ci permetteranno di agire al meglio delle nostre possibilità, facendoci così vivere il meglio possibile, date le condizioni storico-sociali della nostra esistenza.

L’ultima “pratica” che affrontiamo, in questa parte del presente manuale dedicata al counseling come “architettura di pratiche”, è quella della PRESENZA.

Nel nostro fare counseling, e prima ancora nella nostra Formazione IN Counseling, ogni nostra pratica si fonda sull’attenzione verso noi stessi, su un utilizzo dei nostri sensi volto a riconoscere cosa ci stia capitando e cosa stiamo mettendo in atto nello stare in relazione con l’altro.

In particolare, con le nostre pratiche puntiamo a riconoscere i nostri stati mentali, soprattutto quelli di cui subiamo, inconsapevolmente, le influenze negative; di tali influenze vogliamo liberarci, e aiutare i nostri clienti a fare altrettanto, per imparare a scegliere responsabilmente cosa e come fare per meglio affrontare le difficoltà esistenziali in cui ci dibattiamo e meglio orientare l’intera nostra vita.

Se, come abbiamo già scritto, osservare senza giudicare vuol dire assaporare gli effetti sensoriali del mettere a fuoco, con tutti i nostri organi di senso (dalla vista all’udito, dal tatto all’udito, dall’intero nostro sentire al complesso sistema delle nostre facoltà mentali), tutto ciò che è da noi stessi percepibile, nel qui e ora della nostra esistenza, nel campo e nelle condizioni in cui la stiamo vivendo, la pratica della PRESENZA è tutto ciò che facciamo per riuscire non solo a osservare senza giudicare, è, soprattutto, ciò che facciamo per riuscire a mantenere un contatto consapevole, con noi stessi, con l’altro, con l’ambiente.

Più volte, in questo manuale, si parla di consapevolezza come quello stato dell’essere in cui abbiamo buona coscienza di ciò che sentiamo, pensiamo e agiamo e abbiamo buona coscienza di come tutto ciò si correli con l’ambiente in cui ci ritroviamo (con particolare riferimento a ciò che sentono, pensano e fanno le persone con cui stiamo interagendo).

Questo stato di consapevolezza è una risultante del modo in cui siamo in contatto noi stessi e del modo in cui contattiamo tutto ciò con cui siamo in relazione.

Questo stato di consapevolezza è una funzione della nostra PRESENZA, cioè del modo in cui stiamo con noi stessi, con gli altri, con l’intero ambiente.

Il nostro modo di essere presenti, quando facciamo counseling, riguarda il nostro ascoltare e accogliere ciò che, ascoltando, sentiamo; riguarda i nostri livelli di attenzione, di curiosità e di interesse per quello che sta accadendo, in noi stessi, nell’altro, nella stessa relazione di counseling, su qualsivoglia piano del sentire, pensare e agire questo avvenga.

Insomma la pratica della presenza è quella di “tenere insieme” tutte le pratiche di base del counseling, qui analizzate:

  1. l’ascolto
  2. l’accoglienza
  3. il fare la spola
  4. il dare feedback
  5. l’osservazione non giudicante

“Tenere insieme” queste pratiche vuol dire fare pratica di presenza, cioè “esserci” lì dove il nostro fare counseling ci tiene.

“Tenere  insieme” queste pratiche è la pratica che determina il miglior fluire possibile dei processi di consapevolezza su cui basiamo il nostro fare counseling ed è ciò che, in ultima istanza, sostiene i nostri stati di consapevolezza.

Abbiamo un’idea di consapevolezza come quello stato personale che determina e, contestualmente, è determinato da una congrua e funzionale integrazione del nostro “sentire”, “pensare” e “agire”.

Qui aggiungiamo che ogni nostro stato di consapevolezza è una funzione diretta del nostro essere “attivamente presenti” (cioè adeguatamente e funzionalmente in contatto con quanto stiamo sentendo, pensando e agendo) nelle circostanze della nostra esistenza che lo richiedono, per soddisfare un nostro bisogno e/o per aiutare al meglio chi, da solo, non riesce a soddisfare i propri e, per questo, ci chiede aiuto.

Avere una presenza attenta, consapevole e interattiva con i nostri clienti (cioè “esserci” nella relazione, stare dentro la relazione, in contatto empatico col cliente; diversamente da quanto fanno altri professionisti della relazione d’aiuto, che considerano il proprio coinvolgimento umano, nella relazione con i propri pazienti, un’interferenza, un fattore di disordine, di mancanza di controllo e di verificabilità scientifica) è ciò che caratterizza il nostro saper fare counseling.

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