L’INFANZIA. Lo sviluppo psicosessuale e psicosociale. La teoria dell’attaccamento e i Modelli Operativi Interni.

L’infanzia. Lo sviluppo psicosessuale e psicosociale. La teoria dell’attaccamento e i Modelli Operativi Interni.

Ho scritto questo capitolo sull’infanzia (7.2, “Manuale per la Formazione IN Counseling”) utilizzando, come traccia, una bozza che, per lo stesso, mi ha offerto Eleonora Conti, insegnante di scuola primaria e, all’epoca, allieva del terzo anno alla Scuola IN Counseling Lo Specchio Magico Torino, di cui sono il direttore.

Ringrazio Eleonora e anche a Luigi Negro, psicoterapeuta di formazione gestaltica e mio supervisore professionale, che mi ha regalato sunti preziosi sulla teoria dell’attaccamento, che incontrerete continuando a leggere questo capitolo.

Nel farlo, é bene che consideriate che qui trattiamo dell’infanzia, nei nostri tempi moderni/contemporanei, in situazioni sociali in cui i bambini non sono considerati una risorsa economica o un’unità lavorativa o una merce di scambio politico per alleanze di potere, tra regnanti.

Con questa precisazione, voglio richiamare l’attenzione sull’importanza della relazione bambino-ambiente, nel connotare le caratteristiche esistenziali dell’infanzia e nel determinare, quindi, il valore delle esperienze dei bambini e di chi se ne prende cura.

Storicamente, con il variare delle condizioni socio-culturali in cui la relazione bambino-ambiente è inscritta, cambiano i modi di considerare i bambini e, quindi, di percepirli (provate a pensare, ad esempio, al differente modo di vedere e trattare i bambini prima dell’esplosione della società dei consumi).

Con questo incipit, voglio ricordare a noi counselor che, ogni volta che lavoriamo su questioni collegate all’infanzia (come del resto su qualsiasi questione), é fondamentale tenere conto e dare importanza ai valori culturali e morali in cui l’esperienza dei nostri clienti é inscritta.

Altro aspetto, fondamentale, per chi vuole fare il counselor, è considerare che ogni difficoltà, pensata da un adulto come propria di uno specifico bambino, non potrà essere trattata, da un counselor, esclusivamente come tale.

Ogni difficoltà vissuta da un bambino (sì, è vero, vale anche per gli adulti, ma per un bambino molto di più!) è una “gestalt” che comprende il suo rapporto con l’ambiente.

Ogni difficoltà di un bambino sarà quindi “lavorata”, da un counselor, partendo dal modo in cui quel bambino é trattato da chi dello stesso si prende cura, perché è lì che, immancabilmente, risiedono le cause delle difficoltà del bambino, ed è lì che sarà utile intervenire, anche sostituendosi (simbolicamente e contingentemente, nel caso di un lavoro diretto, con il bambino, nel corso delle proprie sessioni di counseling) a chi di quel bambino si prende cura.

Va da sé, quindi, che il lavoro più utile che un counselor può fornire, in materia di sostegno a bambini dall’infanzia “difficile”, sarà quello offerto agli adulti in difficoltà a stare e a gestire il proprio rapporto con quei bambini (bambini alle prese con un mondo che non sa “prenderli”).

Di questa fattispecie, voglio proporre un esempio.

È il caso di un’insegnante di scuola primaria alle prese con un bambino, che lei dichiara essere “problematico”.

Definire problematico un bambino, nei cui confronti svolgiamo qualsivoglia funzione, vuol dire, implicitamente, considerare un problema quel bambino stesso, invece di considerare un nostro problema il non riuscire a trattarlo adeguatamente, affinché possa imparare a meglio affrontare le difficoltà che sta vivendo e, quindi, stare meglio.

Se il bambino è un problema, il nostro rapporto con lui avrà connotati diversi da quelli che avrebbe se considerassimo un problema da risolvere il trovare buoni e funzionali modi di rapportarci a lui, così com’è!

Un counselor che dovesse ritrovarsi a “lavorare” con quel bambino “problematico”, svolgerebbe al meglio il proprio lavoro se potesse aiutare quell’insegnante a trovare migliori modi di rapportarsi a quel bambino; modi che verrebbero scoperti, nella relazione di counseling con l’insegnante, lavorando sul come quell’insegnante si rapporta con quel bambino e su “a cosa deve/gli serve” rapportarsi in quel modo con quel bambino.

Portando avanti questo lavoro, facilmente, quell’insegnante si ritroverebbe a fare i conti con i sospesi della propria infanzia, con i propri atteggiamenti mentali circa cosa sia giusto/sbagliato fare con i bambini, arrivando a scoprire cose importanti su di sé e sui propri pregiudizi, magari da cambiare/migliorare.

Quando questo dovesse avvenire, facilmente su questo quella persona si appoggerà per cambiare il proprio modo di vedere e gestire quel bambino “problematico” e la sua relazione con lo stesso, producendo, immancabilmente miglioramenti esistenziali, per il bambino e per se stessa.

I problemi che un bambino ci presenta sono un riflesso dei problemi degli adulti che se ne occupano (tutti, nessuno escluso); intervenendo su questi, daremo una grossa mano alla soluzione di quelli del bambino.

L’esperienza che un bambino “problematico” vive con la propria maestra, se questa non si limitasse a pensare che le difficoltà comportamentali del bambino dipendano esclusivamente dalla sua famiglia d’origine, ma della gestione di tali difficoltà si assumesse la propria responsabilità, potrà farà una bella differenza per le  possibilità del bambino di imparare a comportarsi in modo adeguato alle esigenze del contesto scolastico, in cui si ritrova, ed alle proprie; questo lo aiuterebbe a vivere un’esperienza educativa e di crescita, che lo aiuterà a vivere meglio anche le sue condizioni familiari.

Quando noi counselor aiutiamo un’insegnante a gestire positivamente le proprie relazioni con i bambini, i cui comportamenti lo mettono in difficoltà, partendo dal presupposto che tocchi a lui fare i conti con ciò che lo sta mettendo in difficoltà, considerandolo una sua competenza da migliorare e non un problema del bambino, noi counselor aiutiamo a crescere sia l’insegnante, sia il bambino.

L’infanzia è il primo ciclo di vita dell’esistenza umana.

Inizia con la nostra venuta al mondo, in una condizione soggettiva in cui del mondo, e di noi stessi, non sappiamo niente, una condizione soggettiva in cui per vivere abbiamo assoluto bisogno di qualcuno che si prenda cura di noi, nutrendoci, vestendoci, soddisfacendo l’intero nostro universo di bisogni vitali, affettivi/psicologici e di crescita.

In queste pagine ci interesseremo, soprattutto, dei bisogni evolutivi dei bambini, delle difficoltà che gli adulti incontrano nei loro rapporti con il variegato mondo dell’infanzia e delle difficoltà che gli adulti si trascinano dai propri trascorsi infantili.

A noi counselor dell’infanzia interessa principalmente la relazione bambino-ambiente, perché è lì che il bambino soddisfa i propri bisogni di sussistenza e crescita, ed è lì che apprende quanto gli serve per vivere, ed è nella propria relazione con l’ambiente, alias l’altro che si prende cura di lui, che il bambino apprende i propri modi di “aggiustarsi” a vivere, purtroppo non sempre al meglio delle proprie possibilità.

Anche se a noi counselor potrebbe capitare di lavorare direttamente con uno o più bambini, le nostre maggiori e più importanti opportunità di lavoro, relative a questioni collegate all’infanzia, riguardano il mondo degli adulti, ogni volta in cui uno di loro fatica a rapportarsi con un qualche bambino, ogni volta in cui, nei confronti della propria infanzia, un adulto mantiene dei conti in sospeso (alias una o più gestalt aperte).

Partiamo allora con il guardarla questa infanzia!

Cos’è? Quali sono gli accadimenti che più la caratterizzano? Quali sono i modi di stare con questi e di gestirli, sia da parte dei bambini, sia da quella degli adulti?

Partiamo da ciò che precede l’infanzia.

L’età prenatale.

Intorno alla sesta settimana di gestazione, il cuore del feto comincia a battere.

Nel ventre materno, il cervello del nascituro sviluppa i suoi 12 miliardi di cellule nervose in 20 settimane.

Dal terzo mese di gravidanza, l’intero organismo del bambino comincia a sincronizzare le proprie funzioni, rispondendo ai propri stimoli interni (ad esempio regolando l’alternanza attività motoria – riposo).

Dal sesto mese comincia a rispondere agli stimoli esterni (suoni, rumori, pressioni fisiche, dolore, calore) e risente delle condizioni psico-fisiche della madre, soprattutto quando sono intense.

I neonati prematuri di sei mesi succhiano, inghiottiscono, reagiscono agli stimoli sensoriali, con particolare riferimento ai gusti dolce-salato.

Il primo anno di vita. La prima infanzia.

Nascendo, il bambino cambia stato, passa da un’esistenza di tipo parassitario (nel ventre materno, avvolto in un involucro liquido, relativamente stabile, che gli garantisce tutto ciò di cui ha bisogno) a un’esistenza fisiologicamente distinta e autonoma, in un ambiente sconosciuto e insicuro.

La nascita avviene in forza di condizioni repentine, molto stressanti (pressioni-contrazioni dell’utero materno); il bambino è catapultato in un mondo completamente nuovo, dove non è più un tutt’uno con l’ambiente che lo circonda, ma con questo stabilisce contatti vari e mutevoli: il bambino lascia il regno del “continuo” e dell’indistinto per ritrovarsi in quello del “discontinuo” e del distinto, un regno che lo sottoporrà a continui sforzi di adattamento.

Appena nato, il bambino ha un sistema sensoriale grossolano, ha sensazioni di piacere-dolore, delle proprie tensioni e dei propri bisogni, che non percepisce in modo distinto, così come non differenzia la provenienza interna/esterna degli stimoli che riceve. La sua soglia percettiva esclude gran parte del mondo esterno. Il suo modo di percepire è di tipo primitivo (si svolge per il tramite di sensazioni ed emozioni, di cui non ha chiara coscienza, ma che ne muovono i comportamenti); le facoltà percettive evolvono con lo sviluppo delle funzioni sensoriali e mentali del bambino, che lo mettono in condizione di distinguere ciò che percepisce e di dargli un senso; in altre parole di cominciare a trasformare i propri vissuti in esperienze di crescita.

Il neonato reagisce, da subito, alla luce, ma non mette a fuoco ciò che vede. Dalla terza settimana può fissare un oggetto, ma solo a due mesi comincia a seguirne gli spostamenti, se sono lenti.

Percepisce poco i rumori, tranne quelli molto forti.

Patisce il freddo e lo dimostra piangendo (il pianto è la sua forma d’espressione più usata!).

Reagisce alle stimolazioni del palmo delle mani con il riflesso della presa.

Manifesta sensibilità tattile nella testa e nei contorni labbra.

Se gli si avvicina qualcosa di dolce alla bocca, reagisce col riflesso della suzione, diversamente da stimoli salati e/o amari, ai quali reagisce con smorfie, pianto, respiro affannoso.

È capace di poppare, inghiottire, vomitare, sbadigliare, starnutire, singhiozzare, volgere la testa per respirare meglio o per allontanare uno stimolo disturbante, ecc.

Insomma, il neonato non ha ancora la capacità di inquadrare, cognitivamente, ciò che gli capita, ma è già provvisto di un impianto senso-motorio capace di entrare in azione, alla bisogna.

L’esperienza vitale di un neonato è un ciclo continuo di accumulo-scarico di tensioni collegate all’insorgenza e alla soddisfazione dei propri bisogni primari di alimentazione, calore e riposo.

La soddisfazione di questi bisogni è affidata totalmente all’ambiente e in particolare alla madre, che cura, anche, i bisogni psicologici.

La madre, o comunque chi se ne prende cura direttamente, rappresenta per il neonato la prima idea di se stesso, ma è anche la prima persona che scopre diversa da sé; la tal cosa è riconducibile al fatto che è la prima persona che il neonato impara (dal terzo mese) a riconoscere, rispondendole a specchio: con un sorriso al suo sorriso, con vocalizzi vari alla sua voce.

Considerando erotico ciò che procura piacere, visto che il bambino ha la tendenza a succhiare con piacere tutto ciò che arriva alla sua bocca, possiamo considerare la suzione un’attività volta non solo a soddisfare il bisogno della fame, ma anche quello erotico del piacere.

Per questo gli psicoanalisti (da Freud in avanti) parlano di “erotismo primario” e di “fase orale”, per contrassegnare il primo anno di vita del bambino (la bocca è la prima parte del corpo umano a svolgere una funzione erogena).

Il portare alla bocca gli oggetti e succhiarli è per il bambino un modo di conoscerli: se procurano piacere, se ne appropria, diversamente li butta via.

Sempre gli psicoanalisti ci dicono che il bambino, nel suo primo anno di vita, passa da una fase narcisistica, in cui non riconosce altro da sé, a una fase in cui comincia a prendere coscienza della realtà esterna e, parallelamente, della propria esistenza come “un qualcosa” separato dal resto del mondo, con il quale entra in contatto. Parlare di “consapevolezza oggettiva” è chiaramente un’iperbole, ma in psicoanalisi questa locuzione é usata per qualificare questa fase.

Il bambino è costretto ad assumere una propria forma di “consapevolezza oggettiva”, in risposta al fatto che non sempre i suoi bisogni primari vengono soddisfatti immediatamente: essere costretto ad aspettare lo obbliga a scoprire che la soddisfazione dei propri bisogni dipende da qualcun altro, diverso da sé, e così scopre l’esistenza di una realtà esterna, con la quale è costretto ad entrare in rapporto e a fare i conti.

L’inizio dell’interazione sociale del bambino è riconoscibile dalla comparsa della risposta-sorriso.

I bambini fanno prima esperienza del dispiacere derivante dalla privazione di un oggetto, poi quella d’essere lasciati soli.

Intorno al sesto mese il bambino distingue la mimica facciale degli adulti, reagendovi corrispondentemente, mostra interesse per i giochi d’imitazione (ad es. “cucù”) ed è contento di riconoscersi davanti allo specchio (il che gli permette di distinguersi dagli altri).

Non è ancora interessato ai suoi coetanei, che tratta come oggetti.

Vicino agli otto mesi reagisce differentemente ai volti familiari (gli piacciono) e a quelli degli estranei (solitamente piange) e comincia a utilizzare oggetti transizionali (ad es. una coperta o un pupazzetto) per sostituire la madre quando è assente, quando è solo oppure ha fame o sonno.

Per quanto il ricorso a un oggetto transizionale sia un’esperienza illusoria, il bambino la vive come consolatoria; l’oggetto transizionale sostituisce simbolicamente ciò che gli manca ed è particolarmente gratificante per il bambino perché dello stesso può avere pieno controllo (a differenza della mamma, che va e viene in modo incontrollabile!).

Trovare un buon modo per imparare a stare senza la mamma, senza subire oltremodo la naturale paura che da questo può scaturire e, quindi, fare buona esperienza della propria indipendenza da essa, è una tappa evolutiva fondamentale per il bambino.

Quando questo non avviene, il bambino può rimanere preda della propria paura, che potrebbe trasformarsi in angoscia e/o, addirittura, in forme di ansia persecutoria.

Nei casi in cui la madre (o chi si prende cura del bambino) é particolarmente assente nel rapporto con il proprio figlio, corrispondenti eccessivi sforzi transazionali, sostitutivi dello stesso rapporto, mettono a rischio lo sviluppo delle potenzialità comunicative del bambino.

Insomma, un po’ di frustrazione fa bene al bambino, lo stimola ad attivarsi, autonomamente, alla ricerca di soluzioni e/o adattamenti; gli serve per fare le sue prime esperienze del valore della responsabilità personale e lo orienta al contatto funzionalmente adeguato con il mondo esterno.

Questa è la ragione che ha portato Donald Winnicott (pediatra e piscoanalista, 1896-1971) ad indicare nella madre sufficientemente buona il modello di madre da preferire ad ogni idea di perfezione dell’essere madre.

“Madre sufficientemente buona” è quella mamma che si prende cura del proprio figlio, secondo le proprie capacità, senza pensare/pretendere di avere tutte le responsabilità nei confronti del benessere del figlio, né di doversi occupare di tutto ciò di cui ha bisogno, ma lasciando allo stesso il compito di provvedere, in proprio, a quanto è già in grado di fare o di ingegnarsi a fare, mettendolo quindi nelle migliori condizioni per crescere e diventare capace di badare a se stesso, cavandosela nelle circostanze difficili che, ineludibilmente, incontrerà nella propria vita.

Una “madre sufficientemente buona” è, quindi, la mamma migliore che si possa avere!

La seconda infanzia.

Da un punto di vista della crescita e dello sviluppo psico-fisico degli individui, gli studi di psicologia evolutiva si ritrovano concordi nel dividere (convenzionalmente, perché poi, per ciascuno, la suddivisione temporale non é mai così netta) l’età dell’infanzia in quattro fasi:

  1. la prima infanzia (da zero a due anni),
  2. la seconda infanzia (da due a sei anni),
  3. la fanciullezza, (da sei a dieci/undici anni)
  4. la preadolescenza (11-14 anni).

Nei primi due anni di vita avvengono grandi e impressionanti cambiamenti per il neonato, che riguardano il suo sistema motorio e percettivo e coinvolgono la sua interazione sociale e comunicativa.
Il bambino fa le sue prime esperienze delle proprie funzioni percettive/sensoriali e motorie.

In collegamento a ciò scopre, e comincia a esercitare, le sue prime possibilità di comunicazione e di relazione con l’ambiente, che, in questo stadio, è rappresentato, ordinariamente e principalmente, dalla famiglia di appartenenza e dai collegati habitat domestici.

La prima infanzia è il periodo della nostra vita in cui dallo stato neonatale, di totale e assoluta dipendenza dall’ambiente, alias da chi si prende cura di noi, passiamo a una condizione di prima autonomia individuale, cominciando a camminare, a parlare, ad afferrare oggetti, a rispondere ai richiami e a prime, semplici, domande e a manifestare, in modo variamente intellegibile, i nostri bisogni di base e le nostre prime volontà.

Con la prima infanzia, iniziamo quel percorso di crescita e sviluppo individuale che, se avrà buoni esiti, ci porterà all’autonomia personale.

Per questo, sarà di grande aiuto un ambiente e degli adulti di riferimento, capaci di favorire gli sviluppi motori-sensoriali ed emotivi funzionali alla nostra crescita.

Per la psicoanalisi, riprendendo le indicazioni di Sigmund Freud, la seconda infanzia inizia dopo il primo compleanno ed è suddivisa in due fasi:

  1. Fase anale (18-36 mesi)
  2. Fase fallica (3-6 anni)

Queste due fasi seguono quella orale, di cui abbiamo parlato a proposito del primo anno di vita.

Alla fine del primo anno il bambino ha già fatto le sue prime esperienze motorie, prima muovendosi a quattro zampe, poi alzandosi in piedi e facendo i primi passi. Questo gli ha conferito un principio d’indipendenza, che via via svilupperà imparando a tenersi pulito, a mangiare educatamente, a controllare gli sfinteri, a migliorare la prensione e le proprie abilità manuali, a muoversi più velocemente, magari utilizzando un triciclo.

In questa fascia d’età (18 – 36 mesi) il bambino fa esperienza delle sue prime forme di autonomia personale.

Nel suo secondo e terzo anno di vita, il gioco è la sua attività principale.

Intorno alla fine del primo anno di vita, il bambino attiva forme di fonazione più chiare e distinte, cominciando ad articolare parole e a parlare.

Ricordiamo che potersi esprimere e comunicare è indispensabile per lo sviluppo dei processi di maturazione personale.

Il bambino fa esperienza del potere magico della parola (ciò che ha un nome, può diventare nostro), da qui l’insistenza con cui chiede il nome delle cose.

La dimensione cognitiva della sua esistenza è ancora tutta da formarsi, ma il bambino vi si sta introducendo; giocando con ogni cosa che gli capita a tiro, comincia a farne esperienza, a conoscere il mondo e ad apprendere ciò che lo riguarda.

Fino ai tre anni, la dimensione in cui il bambino affonda la propria esistenza è quella “affettiva” (le emozioni e i sentimenti che prova).

Il bambino non ha ancora un’idea precisa di se stesso, ma comincia ad acquisire il senso della realtà, a elaborare i suoi primi giudizi e a rispettare comandi semplici. Si accorge di non dipendere più, completamente, dalla mamma e/o da altri, e aumenta la sua capacità di tollerare l’accumulo di tensione (alias la frustrazione di non poter soddisfare tempestivamente i propri bisogni).

Comincia a fare i conti col proprio desiderio di autonomia, variamente frustrato dal proprio stato di dipendenza.

Freud ha chiamato fase anale la fascia d’età che va dai 18 ai 36 mesi, perché è in questo periodo, che il bambino impara a controllare gli sfinteri e, parallelamente, a regolare autonomamente la relativa soddisfazione dei sensi, del proprio bisogno di riconoscimento sociale e di attenzioni.

Freud vedeva in tale fenomeno una chiara forma d’investimento libidico, concentrato nella zona anale, ossia quella parte del corpo che il bambino scopre essere molto interessante per chi si prende cura di lui (al trattenere e/o all’espellere le feci corrispondono ragguardevoli effetti ambientali).

La necessità di adeguare il proprio bisogno di evacuare a quello delle norme sociali che ne regolano la soddisfazione, fa vivere al bambino ineludibili esperienze di frustrazione, che impara ad accettare e a superare apprendendo:

  1. Quanto la cosa valga per tutti e non solo per lui.
  2. Quanto sia utile socialmente e quanto possa esserlo per lui stesso.
  3.  Quanto non rappresenti una perdita di autonomia, ma una sua, necessaria, regolazione (il “fare da sé” è possibile e può funzionare meglio, se è opportunamente regolamentato).

Chiaramente, la principale responsabilità perché questo avvenga riguarda l’ambiente e il modo in cui il tutto viene gestito da chi si occupa della cura e dell’educazione del bambino.

Fra i tre e i sei anni (fase fallica), il bambino scopre le proprie parti genitali e di queste comincia a fare esperienza, sia esplorandole manualmente (sono di questo periodo le prime forme di masturbazione) e visivamente, sia esponendole, facendo così i conti con i particolari modi in cui sono viste e trattate da coloro con cui è in contatto e/o entra in relazione.

Il bambino scopre le differenze anatomiche e sessuali e, fatalmente, introietta principi e regole sociali riguardanti le differenze di genere e fa propri i relativi usi e costumi.

Non può quindi sorprendere che la libido, in questa fascia d’età, si concentri sui genitali.

Alla scoperta di avere un sesso, diverso se maschio o femmina, consegue una prima forma d’identificazione con i propri adulti di riferimento (i genitori o chi ne fa le veci).

L’identificazione con i genitori è accompagnata con la costituzione di una prima, superficiale, coscienza morale: il bambino assume come proprie le prescrizioni genitoriali e le rispetta anche in assenza di mamma e papà. Questo ha un effetto di auto rassicurazione e auto protezione che facilita lo sviluppo dell’autonomia del bambino, che agisce non più in termini di obbedienza ai dettami genitoriali (magari per paura di castighi e/o privazioni), ma perché li ha trasformati in riconoscimento di ciò che può o non può fare.

Sempre la psicoanalisi ci dice che caratteristica di questa fase è l’insorgenza del complesso d’Edipo (per i maschi) e di Elettra (per le femmine).

L’identificazione genitoriale dell’infante ha una sottolineatura particolare per quella del genitore dello stesso sesso.

Dopo la frustrazione dello svezzamento, il bambino (riconosciutosi maschio) scopre di non avere l’esclusiva dell’affetto e delle cure materne e la bambina (riconosciutasi femmina) di quelle paterne. La tal cosa comporta disorientamenti vari:

  • Per i maschi: gelosia e ammirazione del padre, figura dominante, cui vuole bene e cui vorrebbe somigliare, ma di cui invidia la forza, la sapienza e il potere.
  • Per le femmine: gelosia e ammirazione della madre, cui contende il ruolo nella relazione col padre.

Può capitare così che l’infante metta in campo comportamenti regressivi (succhiarsi il dito, voler essere preso in braccio, farsi la pipì addosso), per attirare su di sé l’attenzione e protezione che ha paura di perdere.

In questa fascia d’età, inizia per il bambino la propria vita sociale, intendendo con questa quell’esperienza in cui il bambino entra in contatto con l’altro, soprattutto i propri pari, avendo coscienza di farlo.

Il bambino è attratto dai suoi simili, bambini come lui; se messo nella condizione di farlo, entra con questi in relazione.

Quando si ritrova in gruppo, il bambino fa esperienza dei ruoli sociali e degli aspetti normativi e disciplinari cui rispondono.

Se non è influenzato da fattori esterni (il mondo degli adulti), tende all’amicizia, benché in modo spesso volubile.

La relazione è facilitata da elementi quali la pari età, la socievolezza, la vicinanza di gusti ed interessi, un simile livello di intelligenza, la possibilità di giocare insieme, un ambiente confortevole.

La fanciullezza (6 – 11 anni)

È il periodo in cui il bambino comincia a fare i conti con la propria vita interiore. Si accorge di provare sentimenti per le persone con cui vive e con cui ha maggiori condivisioni (i familiari, i nonni e i parenti più stretti, la maestra).

Riconosce i propri sentimenti come qualcosa di molto importante, alla quale dà grande valore.

È il periodo dei suoi primi “segreti” e della timidezza, che è il suo modo di difenderli.

Fare i conti con la propria vita interiore spesso lo porta a dire bugie o ad inventarsi scuse, in risposta a richieste che non sa meglio gestire (in questi casi, a poco serve la severità degli adulti).

Aumenta la curiosità per le differenze di genere sessuale e per tutto ciò che riguarda il rapporto tra i sessi.

Dagli otto anni in su (circa), si evidenzia la tendenza alla separazione dei sessi (bambini e bambine cominciano a giocare separatamente e a raggrupparsi per genere d’appartenenza) e alla diversificazione dei caratteri (maschi più agitati ed aggressivi, femmine più tranquille ed accomodanti), tendenza che è molto rafforzata da influenze educative e culturali.

La fanciullezza è l’età in cui compaiono e cominciano a svilupparsi il pensiero logico, le attività mentali (classificazione, seriazione, reversibilità, conservazione, inclusione, numerazione, addizione e sottrazione,…) ed il “problem solving”, anche se legato solo a questioni concrete.

Il bambino-fanciullo impara a riconoscere la dimensione temporale dell’esistenza (passato/presente/futuro) e allenta il proprio egocentrismo.

Anche se lo sviluppo delle facoltà di astrazione sarà un accadimento della preadolescenza, è nell’età della fanciullezza che esplode il bisogno di sapere: il bambino ha una viva curiosità per il funzionamento delle cose, gradatamente passa dall’interesse sui “perché” a quello sui “come”.

In questa età, alla voglia di sperimentare si aggiunge quella del decidere, di collezionare oggetti vari, di prendersi cura delle proprie cose, di giocare e di farlo in gruppo.

Il bambino-fanciullo tende ad applicarsi in diverse attività e manifesta il bisogno di distinguersi e di essere riconosciuto come particolarmente bravo, forte, simpatico, ecc. ecc. (è molto gratificato dai complimenti); anche per questo richiede di fare da solo, per avere conferma del proprio valore e per dimostrarlo ai suoi adulti di riferimento.

In questa fascia d’età, quella della scuola primaria, il bambino scopre che il mondo è popolato anche da persone per le quali lui non è il centro dell’attenzione e fa esperienza dell’indifferenza affettiva (a casa tutti gli vogliono bene, fuori non più).

Le sue capacità di adattamento alle richieste e ai bisogni ambientali sono messe a più dura prova e le sue manipolazioni affettive e di seduzione, così efficaci in famiglia, si rivelano inadeguate.

Fuori di casa, il mondo è un luogo in cui non può contare sull’aiuto dei genitori.

Anche per questo, il gruppo assume tanta importanza; in esso, l’egocentrismo infantile é messo in crisi; il bambino scopre che esistono mondi che vanno avanti anche senza di lui.

A scuola e nei suoi primi gruppi amicali, il bambino apprende le sue possibilità di stare al mondo; impara a difendere i propri diritti e ad affermare le proprie volontà, dapprima con atti di prepotenza e con forme di aggressività “sopra le righe” (musi lunghi, botte, insulti), in seguito, e sempre più, confrontandosi amichevolmente, con argomentazioni logiche.

Il gruppo di coetanei è il campo esistenziale in cui il bambino-fanciullo fa continue esperienze di conflitto e di rivalità, così come di aiuto reciproco e complicità; è il luogo dove impara a valorizzare se stesso e gli altri, dove é criticato e lui stesso critica gli altri, dove impara a fare i conti con il potere altrui e dove fa esperienza del proprio, dove può apprendere come accordarsi e fare esperienza delle proprie possibilità di scegliere con chi stare.

Nel gruppo avvengono i primi drammi esistenziali.

Al bambino può capitare d’essere emarginato, utilizzato come capro espiatorio, diventare vittima della prepotenza e dell’aggressività altrui; dalle sue reazioni e da quelle ambientali, in queste prime occasioni e in quelle simili, che gli capiteranno nel corso della propria vita, dipenderà la qualità della sua esistenza.

La preadolescenza (11-14 anni)

In questa fascia d’età, continua lo sviluppo di quanto presentato per la fanciullezza; un po’ prima per le ragazze, un po’ dopo nei ragazzi, si avviano i processi fisiologici di sviluppo del genere sessuale.

È l’età della pubertà.

I bambini fanno i conti, personali e sociali, del proprio divenire sessualmente attivi.

Tale cosa ingenera “subbugli” emotivi e disorientamento sia a livello personale, sia sociale.

Il tutto non propone problemi particolari, di difficile soluzione, quando il bambino può contare su di un ambiente familiare e socio-culturale, in grado di prendersi adeguatamente cura dei suoi bisogni (in primis, quello d’essere rassicurato sulla naturalezza, sulla bellezza e sul valore di quello che gli sta capitando) collegati alla particolare fase di crescita, e di cambiamento, che sta vivendo.  

Quanto sia indispensabile sapere, per un counselor, sulla preadolescenza, da aggiungere a quanto fin qui presentato dell’infanzia, lo trovi nel capitolo successivo, specificatamente dedicato all’adolescenza.

La relazione bambino-ambiente.

L’infanzia é il periodo della nostra vita in cui facciamo le prime, e quantitativamente più importanti, scoperte del mondo, di noi stessi, degli altri.

L’infanzia è anche il periodo della nostra vita in cui costruiamo le strutture comportamentali di base del nostro abitare questo mondo, del nostro stare, e avere relazioni, con noi stessi e con gli altri.

Diventiamo adulti e, anche se non abbiamo ancora scoperto tutto ciò che si può sapere e conoscere della vita, di noi stessi e degli altri, se il nostro sviluppo psico-fisico e i processi di integrazione socio-culturale che ci hanno coinvolto sono stati sufficientemente adeguati, diventiamo non solo capaci di badare a noi stessi, diventiamo anche capaci di aiutare gli altri, principalmente coloro che, come i bambini, ne hanno più bisogno.

Purtroppo, però, questo non sempre avviene adeguatamente!

La soddisfazione dei bisogni evolutivi, che permette la strutturazione di una personalità adulta, in grado di assolvere le proprie responsabilità, non sempre avviene con modi e tempistiche adeguate.

Molti adulti si ritrovano, così, a vivere difficoltà personali dipendenti da aspetti irrisolti dei propri vissuti infantili.

Sono quegli adulti che, da bambini non hanno potuto soddisfare i propri bisogni evolutivi e, crescendo, non sono riusciti a trovare il modo di farlo (spesso perché non l’hanno mai cercato).

Ecco perché ci ritroviamo adulti che non sanno:

  • come fidarsi o diffidare, quando questo è ciò che andrebbe fatto,
  • come attivarsi autonomamente per affrontare e risolvere i propri problemi,
  • avere un proprio senso critico ed una propria autonomia di pensiero,
  • opporsi alle ingiustizie e alle oppressioni,

adulti che:

  • si aspettano sempre che siano gli altri a risolvere i loro problemi,
  • che si considerano sostanzialmente inadeguati a far fronte, personalmente, alle proprie necessità/difficoltà esistenziali.

Per tali adulti, prendersi cura di un bambino, spesso, vuol dire fare i conti con difficoltà che non sanno affrontare e che, il più delle volte, non riconoscono come proprie, imputandone, semmai, la colpa al bambino di cui dovrebbero prendersi cura e/o agli altri adulti che se ne occupano.

I bambini che hanno a che fare con tali adulti, spesso, subiscono i loro atteggiamenti inadeguati e la loro incapacità di dare buone risposte relazionali ai bisogni di sicurezza, affettivi ed educativi che, in quanto bambini, stanno vivendo.

Da parte di chi si prende cura dei bambini, è importante avere buone conoscenze dei loro bisogni, sia quelli collegati al loro stare in vita, sia quelli evolutivi, che regolano la loro crescita.

A chi si prende cura dei bambini, però, non basterà avere buone conoscenze sull’infanzia, se, nel corso della propria vita non sarà riuscito a sviluppare le proprie qualità di adulto (vedi capitolo su “L’età adulta”).

L’infanzia é il periodo della nostra vita in cui avviamo la scoperta del mondo, di noi stessi e degli altri; è il periodo in cui costruiamo le strutture comportamentali di base del nostro stare in questo mondo, con noi stessi e in relazione con gli altri.

Quello che faremo da adulti, quindi, in un modo o in un altro, avrà a che fare con quelle strutture, o con il loro sviluppo, se avremo saputo migliorarle.

Appoggiandoci dunque su quanto fin qui analizzato e proposto, affermiamo che:

<< Chiunque si occupi di bambini e con questi entri in relazione, quando questo avviene, si ritrova, immancabilmente e in qualche modo, a fare i conti con:

  1. il proprio essere stato bambino,
  2. con il proprio modo di vivere il non esserlo più,
  3. con le proprie identificazioni culturali in materia di “cosa sono i bambini” e “come vanno trattati i bambini”,
  4. con le proprie capacità di tradurre in pratica tali identificazioni. >>

Siamo (stati) tutti bambini

Quello dell’infanzia è un ciclo di vita straordinariamente importante.

I bambini sono animati da una grande curiosità di scoprire, sapere, conoscere il mondo e la vita.

L’infanzia è l’età in cui costruiamo le nostre prime rappresentazioni della vita, del mondo e del nostro viverci dentro e, con queste, costruiamo la struttura di base del nostro modo di percepire la vita e il mondo, fuori e dentro di noi.

Nei primi mesi di vita il bambino è totalmente dipendente dai genitori, che lo curano e lo riempiono di attenzioni, offrendogli l’amore, la protezione e la sicurezza di cui ha bisogno, per vivere e crescere positivamente.

L’ambiente familiare influenza il bambino in materia di modelli comportamentali e valori culturali. La stessa considerazione del “giusto” o “sbagliato”, e il modo di trattarlo, è un’attitudine che matura nel corso dell’infanzia, in collegamento al cosa, in famiglia, viene considerato giusto o sbagliato e al come viene, conseguentemente, trattato.

In tutto ciò, particolare è la relazione madre-figlio, perché è la madre che provvede al nutrimento e alle cure di base del neonato e perché il legame che ha stabilito con il figlio in grembo ha una qualità che perdura, seppure in forme diverse.

Una mamma riconosce e soddisfa i bisogni del proprio figlio, secondo la propria esperienza, la propria cultura, la propria consapevolezza e intelligenza emotiva.

Riconoscere e soddisfare i bisogni di un bambino é un tramite, particolarmente efficace, di trasmissione di valori culturali e stati d’animo; per questo, le mamme sono agenti di condizionamento straordinario degli sviluppi emotivi e culturali dei propri figli.

Su questo piano, non meno importanti possono essere le influenze degli altri adulti di riferimento, quando la relazione con il bambino è di particolare importanza.

In ogni modo, dal modo in cui il bambino é trattato, e dagli esempi comportamentali che gli saranno offerti, dipenderanno, in modo significativo, gli esiti dei suoi processi di crescita e di affermazione personale.

Senza voler sostenere logiche ineluttabili di causa-effetto, è indiscutibile il fatto che i principi e le pratiche educative adottate nei confronti dei bambini ne condizionino i destini; ricordiamo però che, nella nostra visione, a stesse “cause”, individui diversi, o gli stessi, in condizioni diverse, possono rispondere in modo diverso.

Comunque sia, una buona conoscenza di buoni principi e metodi educativi, non potrà che essere di grande aiuto a chi in materia di educazione è chiamato a operare.

Le questioni più importanti che, circa il nostro modo di vivere la vita, ci giochiamo nel corso dell’infanzia ruotano intorno al come “stare” con, e “agire”, i nostri bisogni di:

  1. fiducia / sfiducia
  2. autonomia /dipendenza
  3. sicurezza /insicurezza
  4. intraprendenza / paura
  5. accettazione / senso di colpa

Erik Erikson (1902-1994), eminente studioso di psicologia del ciclo di vita, divide l’intera esistenza dei singoli esseri umani in otto fasi di sviluppo psicosociale; le prime quattro riguardano l’infanzia.

(Erik H. Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti. Armando editore).

Si parla di sviluppo psicosociale perché è la relazione individuo-ambiente, nella sua dimensione socio-culturale, che determina tempi, modi e sviluppi dell’evoluzione umana.

Per Erikson, ciò che caratterizza ciascuna fase dello sviluppo individuale è una specifica tipologia di conflitti / dilemmi:

Fase                                                    Dilemma

  1. Orale, 0-1 anno                                 fiducia vs sfiducia
  2. Anale, 1-3-anni                                 autonomia vs vergogna e dubbio
  3. Fallica, 3-6 anni                                 iniziativa vs senso di colpa
  4. di Latenza, 6-12 anni                        industriosità vs inferiorità
  5. Adolescenza, 12-20 anni                  identità e contestazione vs diffusione d’identità
  6. Prima età adulta, 20-40 anni                       intimità e solidarietà vs isolamento
  7. Seconda età adulta, 40-65 anni       generatività vs stagnazione
  8. Vecchia, 65 anni in poi                     integrità dell’Io vs disperazione

All’origine di ogni dilemma ritroviamo il conflitto “natura-cultura”, ovverosia il dover rispondere a richieste contrastanti: quelle legate ai bisogni psicofisici individuali e quelle provenienti dall’ambiente sociale.

La soluzione di ogni dilemma è il prezzo da pagare per il proprio benessere e il passaggio, equilibrato, alla fase evolutiva successiva.

Con la sua teoria dello sviluppo psicosociale dell’individuo, Erikson sviluppa la teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale (fasi orale/anale/fallica), centrata sul conflitto ES (impulsi naturali ed inconsci) vs Super Io (istanze morali e sociali) e sul passaggio dal principio del piacere al principio di realtà.

Erikson e Freud condividevano una visione dello sviluppo della personalità collegata all’incedere di specifiche fasi.

Per Freud il focus era lo sviluppo psicosessuale, per Erikson quello psicosociale, interessato com’era al ruolo dell’interazione e delle relazioni sociali nello sviluppo e nella crescita degli esseri umani.

Fase orale, dilemma fiducia vs sfiducia, primo anno di vita.

Il bambino ha bisogno di cure premurose.

Se le riceverà, svilupperà nei confronti di chi gliele offre sentimenti di fiducia, che tenderà a estendere agli altri. Succederà il contrario (sfiducia) se non riceverà le cure premurose e ciò di cui ha bisogno. Facilmente svilupperà un senso d’inadeguatezza personale e avrà una bassa autostima.

Fase anale, dilemma autonomia vs vergogna-dubbio, 1-3 anni.

Il bambino è spinto dal desiderio di far da solo (autonomia); quando ci riesce, è contento, quando no, fa i conti con la vergogna e il dubbio se mai ci riuscirà.

In questa fascia d’età impara a controllare gli sfinteri, cosa che gratifica sia il proprio bisogno di autonomia (in primis dai genitori), sia quello di riconoscimento da parte dei propri genitori.

Quei genitori che “premono” affinché i figli imparino a controllare gli sfinteri, spesso promuovono, negli stessi, l’insorgenza di problematiche d’insicurezza e/o collegate a bisogni nevrotici di controllo.

Fase fallica, dilemma iniziativa vs senso di colpa, 4-6 anni.

In questa fascia d’età il bambino vive con esuberanza la prorompenza del proprio bisogno di scoprire il mondo e se stesso, tale cosa spesso si scontra con le necessità, gli usi e i costumi degli adulti, che, spesso, rispondono con comportamenti contenitivi, che favoriscono l’insorgenza di sensi di colpa.

Sono anche gli anni dell’identificazione con il genitore del proprio sesso (fase edipica) e con i problemi che questo comporta, sia in materia d’intraprendenza, sia di correlati, possibili, sensi di colpa.

Fase di latenza, dilemma industriosità vs senso d’inferiorità, 6-12 anni.

È l’età della scuola primaria, la prima in cui ciò che il bambino impara è soggetto a valutazione e a confronti di cui il bambino stesso ha buona percezione.

Tutto ciò lo spinge ad attivarsi e industriarsi, ma lo sottopone al rischio di valutarsi inferiore e di provarne i sensi corrispondenti e, se a questi rimarrà in qualche modo attaccato, di ciò continuerà a soffrire in futuro.

Delle fasi che seguono, proponiamo, nuovamente, lo schema rappresentativo e, anche se riguardano i cicli di vita dell’adolescenza, dell’età adulta e della vecchia, cui riserviamo i capitoli successivi, ne anticipiamo qui una prima presentazione, per offrire una visione prospettica degli sviluppi successivi all’infanzia.

Fase                                                    Dilemma

Adolescenza, 12-20 anni                   identità e contestazione vs diffusione d’identità

Prima età adulta, 20-40 anni                       intimità e solidarietà vs isolamento

Seconda età adulta, 40-65 anni       generatività vs stagnazione

Vecchia, 65 anni in poi                     integrità dell’Io vs disperazione

Vale la pena precisare che i confini delle fasce di età che delimitano questi cicli di vita vanno presi con le molle?!

Adolescenza, dilemma identità vs dispersione, 12-20 anni.

Il bambino-fanciullo diventa ragazzo e fa i conti con la definizione della propria identità, sia di genere, sia di status sociale.

Il ragazzo si ritrova a sperimentare più ruoli e funzioni, personali e sociali; ciò può confonderlo e, se non riesce a dare un senso, proprio e organizzato, all’ordine delle cose che lo riguardano, tra queste potrebbe perdersi, da qui la condizione di un Io “ disperso”.

Prima età adulta, dilemma intimità-solidarietà vs isolamento, 20-40 anni.

In quest’età l’individuo vi entra ragazzo e ne esce uomo.

Vi si affaccia col problema (dilemma) di come preservare la propria identità, non isolandosi dagli altri ma, con questi, integrandosi.

Costituire una propria famiglia è una delle strade che può aiutare a risolvere il problema, ma mille altre sono le esperienze da maturare per riuscirci al meglio!

Seconda età adulta, dilemma generatività vs stagnazione, 40-65 anni.

È l’età in cui sentiamo il bisogno di “lasciare un segno” della nostra vita e di contare qualcosa per gli altri. Come ci giochiamo la soddisfazione di questo bisogno fa la differenza nella qualità della nostra vita e ci permetterà di meglio affrontare la nostra vecchiaia.

La vecchiaia, dilemma integrità dell’Io vs disperazione.

È l’età in cui la questione principale é accettarsi, così come si è diventati e come questo sia potuto accadere, ed è, soprattutto, l’età in cui siamo ancora una volta chiamati a fare, di ciò che siamo stati e di ciò che siamo diventati, il meglio possibile, per noi stessi e per gli altri, con particolare riferimento a chi ci vuole bene e a chi vogliamo bene.

Con tutti i “benefici d’inventario” di cui dobbiamo tenere conto nel considerare le classificazioni di Erikson, il suo precisare che ogni individuo sperimenti un conflitto/dilemma psico-sociale, principale, in ogni fase evolutiva, che, se non superato si ripercuoterà, negativamente, nelle fasi successive, ci aiuta a fissare il riconoscimento delle questioni principali che, crescendo, ciascuno di noi si ritrova ad affrontare.

I dilemmi che Erikson assegna ad ogni singola fase dell’evoluzione umana, non si chiuderanno mai, definitivamente, in ciascuna di queste, a partire da quello iniziale (fiducia-sfiducia) continueranno ad essere in gioco in tutte quelle successive, passibili dei continui mutamenti di risposta, che ogni individuo saprà, all’occorrenza, approntare.

Le funzioni fiduciarie che un individuo è in grado di attivare sono variamente collegate al tipo di rapporto vissuto, nell’età infantile, con i propri adulti di riferimento, principalmente con la madre.

Il senso di sicurezza di un individuo ha molto a che fare con la qualità della soddisfazione dei propri bisogni, di cui ha fatto esperienza in età infantile, sin da appena nato (fase orale).

Nel secondo e terzo anno di vita (fase anale), il bambino è alle prese con lo sviluppo delle proprie capacità motorie e della propria autonomia; lasciarlo adeguatamente libero di sperimentare azioni e comportamenti, lo aiuta a sviluppare la propria sicurezza, indipendenza e fiducia di sé.

Sottoporlo, invece, a un’attenzione particolarmente controllante e paurosa, facilmente ne favorirà l’insicurezza ed il senso di inferiorità, di cui certamente si vergognerà, anche da adulto.

Tra i tre e i sei anni, il bambino è spinto dalla curiosità di conoscere il mondo, di cui fa esperienza principalmente per il tramite del gioco.

Se é contenuto, oltre misura, dai suoi adulti di riferimento, non sarà in grado di sviluppare la fiducia che serve ad affrontare e superare i conflitti interpersonali, che la vita ci propone, diventando facile preda dei propri sensi di colpa.

Nell’età della scuola primaria, il bambino sperimenta le proprie capacità di eseguire i compiti che gli sono assegnati. Lo fa, anche, sperimentando la relazione con gli altri, principalmente i propri pari.

Se non sarà adeguatamente aiutato dai suoi adulti di riferimento, che ne accoglieranno errori e incertezze, potrà sviluppare, con la propria paura di non farcela, un proprio senso di inadeguatezza, che potrebbe perseguitarlo per tutta la vita.

A questo proposito, consideriamo di particolare interesse la teoria dell’attaccamento.

La teoria dell’attaccamento.

La teoria dell’attaccamento postula una tipologia di modelli d’attaccamento alla base dell’esistenza umana.

Il più grande studioso, sostenitore di questa teoria, è stato lo psicoanalista inglese John Bowlby (1907-1990).

La teoria dell’attaccamento nasce e si sviluppa in un’ottica sistemica/evoluzionista/etologica.

Negli ambiti psicopatologici, è molto usata per individuare le cause di molti disturbi della personalità (varie forme d’ansia, stati depressivi, sintomi dissociativi, dipendenze).

A noi counselor, tale teoria può servire come quadro di riferimento teorico per meglio riconoscere gli stati emotivi di quei clienti che dovessero evidenziare, nei propri comportamenti, forme malsane di attaccamento.

Questo, potrebbe aiutarci a meglio empatizzare con loro.

Noi tutti stabiliamo un particolare legame con le persone che, di volta in volta, nel corso della nostra vita, ci sono più vicine, fisicamente.

Questo fatto è di particolare importanza appena nati e nell’infanzia (quanto c’è servito essere presi in braccio da nostra madre, in ogni nostro momento di difficoltà?).

La prossimità fisica madre-figlio è una forma di continuità dell’unità prenatale.

La prossimità fisica con chi si prende cura del bambino, anche quando questi non è la madre naturale, è un atteggiamento comportamentale automatico messo in atto dallo stesso bambino, così come dai cuccioli dei mammiferi.

I modi in cui tale prossimità fisica é praticata da chi, principalmente, ha cura del bambino, soprattutto durante il 1° anno di vita, sembrano determinare specifici modelli di attaccamento, in grado di condizionare l’intera esistenza delle persone.

Superando il modello freudiano di sviluppo per fasi psicosessuali, Bowlby indicò sul riconoscimento e sulla sana gestione delle emozioni del figlio, da parte della madre, la leva di principale sviluppo evolutivo dell’essere umano.

In altre parole, per Bowlby, il sano sviluppo della personalità dipende da un’adeguata forma di attaccamento alla figura materna (o ad un suo sostituto).

Egli formulò la propria teoria valorizzando gli studi etologici di Konrad Lorenz, su l’imprinting degli anatroccoli e di Harlow, con i suoi macachi, sulla loro propensione ad attaccarsi ad un corpo caldo, più che ad un corpo che nutre.

Tali studi evidenziavano quanto, il legame tra madre(o figura di attaccamento) e figlio, fosse indispensabile per soddisfare un bisogno di protezione, calore e sicurezza; bisogno individuato di valore psicologico superiore a quello del nutrimento.

Sempre secondo Bowlby, l’attaccamento si sviluppa per fasi, diventando di tipo sicuro oppure, variamente, insicuro.

È sicuro quando il bambino riceve protezione, sicurezza e affetto dalla propria figura di riferimento.

È insicuro quando il rapporto con essa è caratterizzato da instabilità, eccessiva prudenza, dipendenza e paura di abbandono.

Quattro le fasi in cu si sviluppa il legame di attaccamento:

  1. Dalla nascita alle otto/dodici settimane, il bambino, a parte la madre, che riconosce dall’odore e dalla voce, non é in grado di discriminare le persone che lo circondano; dopo il terzo mese di vita, il bambino riesce a mettere in atto modi di rapportarsi sempre più selettivi, soprattutto con la figura materna.
  2. Sesto – settimo mese: il bambino comincia a discriminare le persone con cui entra in contatto;
  3. Dal nono mese: la figura di attaccamento diventa stabile e visibile; il bambino ne richiama l’attenzione e la usa come base per esplorare l’ambiente, ricercando la sua protezione e il suo consenso.
  4. Il comportamento di attaccamento si mantiene stabile fino ai tre anni, età in cui il bambino acquisisce la capacità di mantenere tranquillità e sicurezza in un ambiente sconosciuto, a patto d’essere in compagnia di figure di riferimento secondarie, e di avere la certezza che la figura di riferimento principale faccia presto ritorno.

Il concetto di base sicura è stato elaborato da Bowlby, alla fine degli anni ’60, osservando il comportamento dei bambini e dei cuccioli, che, nel corso delle loro esplorazioni, ritornano dalla mamma, quando si ritrovano in difficoltà, per ricevere conforto e rassicurazioni.

Da qui il riconoscimento del bisogno di legami emotivamente sicuri, che ci proteggano dalle avversità della vita.

Bowly indicò il conflitto come una dimensione ordinaria della condizione umana e quanto l’incapacità di gestirlo sia correlata al disturbo psichico.

Mary Ainsworth (1913-99), psicologa canadese collaboratrice di Bowlby, ideò (fine anni ’60) un metodo per individuare le forme di attaccamento, e di risposta alla separazione, sviluppate dai bambini e classificate in una tipologia articolata in tre casi, cui fu aggiunto un quarto:

  1. Sicuro: angoscia di separazione all’atto del distacco, che si risolve quando torna la figura di attaccamento (il bambino saluta la madre, riceve conforto, torna a giocare sereno);
  2. Insicuro evitante: poca angoscia per la separazione all’atto del distacco, il bambino ignora la madre che torna, resta inibito nel gioco;
  3. Insicuro ambivalente: il bambino manifesta forte angoscia alla separazione, continua agitazione al ritorno della madre, che non sa, in preda alla rabbia, se accogliere o rifiutare; rimane inibito nel gioco esplorativo;
  4. Insicuro disorganizzato: reagisce sia alla separazione dalla madre, sia al suo ritorno, in modo confuso e disorganizzato.

Il metodo d’indagine della Ainsworth fu denominato “Strana Situazione” (Strange Situation).

La “strange situation” consiste in venti minuti di osservazione in cui si trovano in una stanza il bambino, la mamma e un estraneo. In tale occasione si possono osservare i diversi comportamenti e le reazioni emotive del bambino in presenza della madre, al momento della separazione da questa ed in compagnia di un estraneo.

Da qui si dedussero diversi stili di attaccamento: sicuro, insicuro ansioso ambivalente e insicuro evitante (e in un secondo momento anche lo stile disorganizzato).

Lo stile di attaccamento, che un bambino sviluppa, dipende in grande misura dall’interazione con le sue figure di riferimento, è codificata una tipologia di quattro stili d’attaccamento:

  • Stile Sicuro: il bambino si fida e si affida al supporto con la figura di attaccamento, sia in condizioni normali sia di pericolo. In questo modo, il bambino si sente libero di poter esplorare il mondo. Tale stile è determinato dalla presenza di una figura sensibile ai segnali del bambino, disponibile e pronta a concedergli protezione nel momento in cui il bambino lo richiede. I tratti che caratterizzano questo stile sono: sicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di essere amabile, capacità di sopportare distacchi prolungati, nessun timore di abbandono, fiducia nelle proprie capacità e in quelle degli altri. L’emozione predominante è la gioia.
  • Stile Insicuro Evitante: è caratterizzato dalla convinzione del bambino che, alla richiesta d’aiuto, non solo non incontrerà la disponibilità della figura di attaccamento, ma addirittura sarà rifiutato. Così facendo, il bambino costruisce le proprie esperienze facendo esclusivo affidamento su se stesso, senza il sostegno degli altri, ricercando l’autosufficienza anche sul piano emotivo, con la possibilità di arrivare a costruire un falso Sé. Questo stile deriva da una figura di attaccamento che respinge costantemente il figlio, ogni volta che si avvicina alla ricerca di conforto o protezione. I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile sono: insicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di non essere amato, percezione del distacco come “prevedibile”, tendenza all’evitamento della relazione, per convinzione del rifiuto, apparente esclusiva fiducia in se stessi e nessuna richiesta di aiuto. Le emozioni predominanti sono tristezza e dolore.
  • Stile Insicuro Ansioso Ambivalente: il bambino non ha la certezza che la figura di attaccamento sia disponibile alle proprie richieste d’aiuto. Per questo motivo l’esplorazione del mondo è esitante, ansiosa e il bambino sperimenta, alla separazione, angoscia. Questo stile è promosso da una figura d’attaccamento che è disponibile in alcune occasioni ma non in altre e da frequenti separazioni, se non addirittura da minacce di abbandono, usate come mezzo coercitivo. I tratti che maggiormente caratterizzano questo stile sono: insicurezza nell’esplorazione del mondo, convinzione di non essere amabile, incapacità di sopportare distacchi prolungati, ansia di abbandono, sfiducia nelle proprie capacità e fiducia in quelle altrui.

Poiché, dalle osservazioni della Strange Situation, é emerso che alcuni bambini manifestano comportamenti non riconducibili a nessuno dei tre pattern descritti, è stato definito un quarto stile di attaccamento, da parte di Main e Salomon, denominato “disorientato/disorganizzato”.

  • Stile Disorientato/Disorganizzato: il bambino si mostra disorientato/disorganizzato, manifesta ansia, pianto, si butta sul pavimento o porta le mani alla bocca con le spalle curve, gira in tondo, manifesta comportamenti stereotipati, e assume espressioni simili alla trance in risposta alla separazione dalla figura di attaccamento. Sono anche da considerarsi casi di attaccamento disorganizzato quelli in cui i bambini si muovono verso la figura di attaccamento con la testa girata in altra direzione, in modo da evitarne lo sguardo.

Tutti i bambini sviluppano entro i primi otto mesi di vita uno stile di attaccamento, che si completa entro il loro secondo anno.

L’indicatore per eccellenza, che il legame di attaccamento è stabilito, é l’angoscia da separazione.

Possono verificarsi attaccamenti multipli, che nel corso dello sviluppo sono suscettibili a variazioni.
Non è chiaro quando avvenga esattamente il passaggio dall’attaccamento genitoriale a quello tra i pari. Nell’adolescenza, però, l’attaccamento attraversa un periodo di transizione. L’adolescente si allontana intenzionalmente dalla relazione con i genitori e da quelle familiari, per costruire relazioni nuove con coetanei, relazioni amicali e amorose.

I Modelli Operativi Interni (MOI)

In collegamento alla sua teoria dell’attaccamento, Bowly sviluppò il concetto di Modello Operativo Interno.

I modelli operativi interni sono rappresentazioni mentali che l’individuo costituisce per gestire il proprio rapporto con l’ambiente, preordinando i propri comportamenti, soprattutto nei propri momenti di difficoltà.

I modelli operativi interni sono una sorta d’impianto previsionale del comportamento altrui.

Bowlby propone schemi di collegamento tra tipologia di attaccamento e di modello operativo interno.

All’attaccamento sicuro, corrispondono modelli operativi interni che muovono comportamenti e atteggiamenti positivi, che sanno stare sia con la vicinanza, sia con l’allontanamento della figura di attaccamento.

Agli altri tipi di attaccamento (insicuro-evitante, insicuro-ambivalente/resistente, disorientato-disorganizzato), invece, corrispondono modelli operativi interni che muovono atteggiamenti e comportamenti negativi, che attraversano i campi del rifiuto, della svalutazione, dell’incerto e del minaccioso, agiti in prima persona e vissuti/immaginati come provenienti dagli altri.

Le figure di attaccamento (dall’insicuro al disorganizzato) dei bambini, che hanno sviluppato simili modelli operativi interni, sono stati per loro adulti variamente rifiutanti, inaffidabili, imprevedibili, dall’interazione incerta, intrusivi, assenti, minacciosi.

Le figure di attaccamento sicuro, invece, sono adulti affidabili, capaci di interazioni equilibrate e coerenti, di cui facilmente il bambino comprendeva il senso, che poteva accettare.

Nella “Strange Situation”, il bambino protesta quando la Figura di Attaccamento se ne va, si consola in sua assenza, si tranquillizza e rassicura quando ritorna.

L’individuazione dei Modelli Operativi Interni si ricollega alle teorie sullo sviluppo senso-motorio di Jean Piaget, riferendosi, principalmente, ai processi di assimilazione e di accomodamento, tipici delle prime fasi di sviluppo, del bambino.

Di tali teorie riconosciamo il valore assegnato al fatto che gli schemi interiorizzati del bambino, nei primi anni di vita, possano continuamente essere ridefiniti sulla base dei cambiamenti della realtà esterna e della relazione con la figura di attaccamento, che muta con il tempo e con lo sviluppo.

È importante che il legame di attaccamento si sviluppi in modo adeguato, perché da questo dipende il sano sviluppo della persona (spesso gli stati d’ansia e, fin’anche, le forme depressive di cui soffrono gli adulti, dipendono da esperienze infantili disfunzionali, in materia di forme d’attaccamento).

I modelli di attaccamento, di cui facciamo esperienza nella nostra infanzia, influenzeranno la nostra esistenza, principalmente rispetto alle nostre relazioni interpersonali, e, da adulti, ci toccherà cambiarli, quando saranno fonte di sofferenza e di disagio.

Le forme di attaccamento, che caratterizzano il nostro modo di stare in relazione col mondo, sono una sorta di contraltare della nostra esperienza di separazione materna (o dei suoi sostituti), che, secondo Bowlby, si articola in tre fasi:

  1. Protesta per la separazione
  2. Disperazione per l’assenza
  3. Distacco finale

Quanto più queste tre fasi saranno vissute armoniosamente, con il soccorso di ambienti rassicuranti, tante più saranno le probabilità di sviluppi personali positivi, sani ed equilibrati.

Volendo proporre alcune semplificazioni, che fissino “sommariamente” i concetti fin qui espressi, potremmo dire (identificando la madre come figura di attaccamento) che:

  • Un buon legame tra madre e bambino, capace di soddisfarne i bisogni, di dargli sicurezza e protezione, diventa una base sicura per la sua crescita e il suo sviluppo psicologico.
  • Se dalla madre il bambino non si sentirà protetto o se con essa avrà una relazione di eccessiva dipendenza, quel bambino svilupperà un senso di abbandono e da adulto vivrà relazioni disfunzionali. 
  • Il legame madre-figlio è il principale mediatore emotivo e culturale del senso che il bambino si costruisce dell’ambiente circostante.
  • Una madre “base sicura” per il figlio, allo stesso infonde fiducia. Da grande, questo figlio sarà un adulto che crederà in sé, avrà una buona opinione di se stesso, si accetterà, si percepirà come persona di valore e sarà in grado di instaurare buone relazioni.
  • Un rapporto disorganizzato tra madre e figlio porta invece a problemi relazionali e sessuali, frustrazione, ansia, paure, scarsa autostima e incapacità di agire autonomamente… 
  • La teoria dell’attaccamento sostiene che il bambino costruisce delle rappresentazioni di sé e della figura di attaccamento chiamate Modelli Operativi Interni (MOI).
  • I MOI contengono la rappresentazione di sé e del “caregiver” (chi si prende cura), nelle relazioni di attaccamento, organizzano pensieri e ricordi, guidano i comportamenti futuri di attaccamento. 
  • Le esperienze di attaccamento nell’infanzia influenzano lo stile di personalità e di relazione nell’età adulta, regolano l’adattamento all’ambiente e alle persone. 
  • I MOI filtrano l’informazione in entrata e l’elaborazione di quelle in uscita, innescando processi di attenzione, percezione e memoria selettiva, in modo inconsapevole per l’individuo. 
  • Questo avviene per un bisogno di coerenza da parte dell’individuo, che seleziona le informazioni, secondo a propria sensibilità. Inoltre questo è un sistema per evitare ed escludere, in modo difensivo, le informazioni che potrebbero far riattivare il sistema di attaccamento.
  • I MOI hanno funzioni antidolorifiche, perché potrebbe essere molto doloroso affrontare la propria paura e il proprio bisogno di essere confortato e non ricevere conforto e sostegno dalla propria figura di attaccamento, come è accaduto nell’infanzia. 
  • La sicurezza dell’attaccamento favorisce quella interiore e il senso di sé, è caratterizzata dalla capacità di chiedere conforto e da quella di esprimere il piacere di non essere in una situazione di pericolo.
  • Gi individui con un attaccamento insicuro elaborano le informazioni, secondo i propri pregiudizi, escludendo dall’elaborazione le informazioni che potrebbero far attivare il sistema di attaccamento, poiché si aspettano, in base alle loro esperienze infantili, di non poter essere confortati. 

La visione del counselor fenomenologico, esistenzialista, umanista (alias pragmatico) coincide con quella che propone la Psicoterapia della Gestalt, quando ci dice che le precoci esperienze di attaccamento determinano modelli operativi interni che non possiamo considerare come acquisiti definitivamente e, per questo, non passibili di cambiamento.

I modelli di un’esperienza precoce di attaccamento insicuro possono essere riorganizzati. 

Questo è ciò che accade nella psicoterapia di Scuola Gestaltica.

Accade anche in un’esperienza di formazione e crescita personale qual è la Formazione IN Counseling.

Può accadere anche in una buona relazione di counseling.

I pazienti in psicoterapia, gli allievi delle Scuole IN Counseling, i clienti nelle relazioni di counseling, hanno la possibilità di ricevere risposte, alle loro esigenze di attaccamento, diverse da quelle ricevute prima dai genitori e poi da eventuali partner affettivi, e grazie a queste produrre il cambiamento dei propri stili di attaccamento.

Ci accorgiamo della forma di attaccamento prevalente, nelle persone con cui interagiamo, da come si muovono nella relazione con noi.

Percepire una capacità di entrare in relazione, con noi e/o con altri, rimanda a un attaccamento variamente sicuro.

Al contrario la distanza, l’irraggiungibilità, la mancanza di empatia, sono indizi di attaccamento evitante.

Situazioni meno nette, con aspetti di polarizzazione contrastanti, ci fanno ipotizzare un attaccamento disorganizzato. 

Nella relazione psicoterapeutica, nel corso del proprio percorso di Formazione IN Counseling e, marginalmente, anche in una buona relazione di counseling, l’individuo può fare esperienze diverse di rapporto con l’ambiente e con gli altri, esperienze che possono portarlo a cambiare i propri Modelli Operativi Interni.

Una psicoterapia, la Formazione IN Counseling, con le relative esperienze di gruppo, un percorso di counseling, sono esperienze in cui le persone ricevono disponibilità emotiva, empatia, conforto e sostegno, questo le aiuta a regolare le proprie emozioni e fa si che possano sperimentare nuove forme di attaccamento, in grado di permettere loro di imparare a muoversi autonomamente.

Con la cura, la formazione, il counseling, le persone co-costruiscono sfondi sostenenti l’esperienza di relazione.

In tali ambiti la persona fa esperienze diverse da quelle vissute nel suo ambiente originario.

Per chi non è stato visto, accolto, protetto, vivere tali esperienze, fa nascere la fiducia e riattiva le energie nella direzione dell’autorealizzazione. 

Chiudo il presente capitolo 7.2, riportando parte degli appunti di Eleonora Conti (insegnante di scuola primaria e allieva counselor), che ho abbondantemente utilizzato per scriverlo.

L’INFANZIA e I SUOI PROBLEMI.

Le onde cerebrali (l’attività ritmica ripetitiva dei tessuti del sistema nervoso centrale) di un bambino viaggiano su frequenze diverse da quelle degli adulti; insieme a molte altre, questa è una buona ragione per non pensare ai bambini come a degli adulti piccoli.

I bambini non sono piccoli adulti.

Essere un bambino è una condizione dell’essere umano, assolutamente diversa da quella dell’adulto.

Secondo la loro frequenza, le onde cerebrali si dividono in onde Delta (da 0,1 a 3,9 hertz), Theta (dai 4 ai 7,5 hertz), Alfa (dagli 8 ai 13,9 hertz), Beta (dai 14 ai 30 hertz) e Gamma (dai 30 ai 42 hertz).

Le onde Delta hanno una frequenza bassa, rilevano l’attività cerebrale dei neonati, fino ai due anni di età.

Su queste frequenze, il cervello di un adulto si muove nei suoi stati di sonno profondo.

Dai due a sei anni le onde su cui viaggia il cervello di un bambino sono le Theta, quelle di una mente impegnata in attività d’immaginazione e d’ispirazione creativa, mentre per un adulto sono quelle dei sogni, fatti a occhi aperti oppure dormendo.

L’attività cerebrale, che si muove su queste frequenze, confonde, nel bambino, la percezione dei mondi immaginari con quelli reali.

Ai sei anni la mente arriva a un livello detto Alfa, che corrisponde ad uno stato di coscienza vigile, ma rilassata.

La mente è ricettiva e predisposta all’apprendimento.

Dai sei anni in poi si definisce la coscienza di sé.

Dai dodici anni, le onde Beta caratterizzano le normali attività di veglia.

Su queste frequenze, la mente è più ricettiva. Questo spiega perché in questa fascia d’età immagazziniamo più facilmente dati e informazioni.

Studi di psicologia infantile dimostrano che madre e figlio tendono a sincronizzare le loro onde cerebrali, consentendo quella particolare, empatica, connessione che ingenera benessere e felicità.

Per far sì che un bambino da adulto possa sviluppare sentimenti di fiducia, amore e sicurezza, bisogna adottare un approccio comunicativo che infonda fiducia, sicurezza e autostima.

Malesseri e stress della mamma diminuiscono le possibilità di connessione neuronale madre-figlio, diminuendo così la qualità delle relative interazioni (al bambino mancheranno adeguati stimoli-input emotivi).

Gli stati emotivi del bambino possono essere influenzati da quelli materni, fino a una loro sorta di cristallizzazione, che ne influenzerà relazioni interpersonali e vita intera.

Un genitore in grado di gestire al meglio le proprie emozioni e di comunicare empaticamente con i propri figli li aiuterà a diventare adulti sicuri e felici, in grado di interagire positivamente con l’ambiente.

Una delle cause più ricorrenti delle difficoltà emotive e comportamentali dei bambini riguarda il rapporto con figure genitoriali assenti o presenti in modo “dissonante”.

Genitori amorevoli e violenti nello stesso tempo, che dichiarano amore ai propri figli e li trascurano, che impongono con durezza comportamenti, che loro stessi non rispettano, procurano ai figli esperienze di “dissonanza cognitiva”, che ingenerano turbamenti carichi di sensi di colpa, rabbia, vergogna, rifiuto.

I bambini crescono sfiduciati, imparando a vivere nel senso di colpa e pensando di meritare quello che ricevono.

Avere avuto genitori con difficoltà ad amare, che quindi ci hanno amato poco e/o male, incide sull’autostima e aumenta la possibilità di vivere storie d’amore in preda alla paura del rifiuto, all’ansia, all’imbarazzo e alla vergogna; storie d’amore vittime della nostra incapacità d’amare e di farci amare.

L’Amore s’impara in famiglia!

Meglio evitare discussioni e litigi di fronte ai bambini, molto meglio amarsi, esprimendosi affetto e fiducia, preferendo il confronto alle punizioni; i nostri bambini potranno, così, apprendere più facilmente forme di relazione gentili, pacifiche e non violente.

  • Un bambino che sta chiedendo la vicinanza della madre, che cerca di attirarne  l’attenzione, anche con pianti, sta chiedendo sicurezza e protezione.
  • La vicinanza madre-figlio avviene attraverso connessioni fisiche ed anche attraverso connessioni  energetiche.
  • Il bambino è collegato alla mamma attraverso le vibrazioni del suo battito del cuore, della sua voce, del calore corporeo, dello sguardo e del contatto fisico.
  • L’armonia, la felicità, il benessere e la serenità di un bambino non sono legate alle cose materiali, ma ad un legame più forte e naturale: quello dell’AMORE.
  • Il legame genitore-figlio è una struttura di connessioni neuronali, dinamiche, mosse dall’interazione delle rispettive sensazioni, emozioni e sentimenti e dalle reciproche percezioni.
  • La mamma trasmette codici comportamentali, valori morali e stati d’animo.

L’idea di sé che il bambino si forma, e con la quale continuerà a fare i conti crescendo, deve molto a tali trasmissioni.

  • Se una madre apprezza le qualità del proprio figlio, infondendogli fiducia e sicurezza, crescerà un bambino fiducioso di se stesso e delle proprie capacità-possibilità di buona riuscita, da grande, nella propria vita. Questo bambino, da adulto, avrà buone capacità relazionali, di “problem solving” e una buona autostima.
  • L’autostima è un sentimento che permea i nostri pensieri e vibra nel nostro corpo; ci nutre di buona energia, utile per superare i nostri momenti di difficoltà.
  • La vita ci sottopone a continue prove, che a superarle bisogna sapersi accettare, avere buona consapevolezza dei propri bisogni e tanta fiducia delle proprie capacità e possibilità di farcela.
  • L’elogio dei genitori, la loro comprensione, il loro accettare gli errori dei figli, stimolandoli a fare ciò che sono chiamati a fare, al meglio delle proprie possibilità, il loro aiutarli a riconoscere il proprio valore, tutto ciò aiuta la crescita dell’autostima.
  • Vivere in un ambiente ostile, fatto di critiche e giudizi negativi, alimenta l’affermarsi di atteggiamenti mentali/comportamentali disfunzionali (scarso autocontrollo, eccessiva aggressività, passività, depressione) e lo sviluppo d’immagini di se stessi come persone sbagliate, inadeguate, incapaci di far fronte alle difficoltà del vivere, sempre in preda alla paura d’essere rifiutati e abbandonati.
  • L’empatia, il comprendere cosa prova l’altro, è uno degli strumenti che il counselor usa per incontrare il proprio cliente, ed è molto utile anche a un genitore, che ha il compito di educare e crescere i propri figli. Far vivere loro l’esperienza d’essere compresi, non solo nei loro pensieri e nelle loro volontà, soprattutto in ciò che sentono e provano, li aiuterà a diventare adulti sicuri, capaci d’instaurare relazioni interpersonali positive, empatiche e impregnate di ottimismo.
  • Un sistema educativo basato su punizioni e premi tende a inibire la libertà di scelta del bambino, che imparerà a decidere solo in base alla volontà altrui, alias i suoi adulti di riferimento.
  • Quello che viviamo da bambini rimane in noi, in quella parte solitamente chiamata “bambino interiore”, una parte in grado di influenzare i nostri pensieri, le nostre emozioni, percezioni ed azioni.
  • Un bambino che vive in ambienti litigiosi, si spaventa, prova angoscia, tristezza e insicurezza per ciò che sente e vede accadere intorno a sé.
  • Un counselor che lavora con i bambini deve saper immergersi nel loro mondo interiore, deve saper accogliere dentro di sé ogni loro sofferenza e ogni loro  travaglio emotivo, e deve sapersi calare nella realtà della loro tenera età, magari agganciandosi ad  episodi di vita  che lui stesso ha  già   vissuto da piccolo, per comprendere come si sentono, così da meglio sostenerli emotivamente.
  • Un bambino arrabbiato ha difficoltà relazionali sia con i coetanei, sia con gli adulti. Per avvicinarsi a un bambino arrabbiato è indispensabile accoglierne la rabbia e riuscire a permettergli di esprimerla. Ci aiuterà considerare la sua rabbia come ben motivata. Mostrare interesse per questa rabbia (Chi ti ha fatto arrabbiare? Cosa ti è successo? Cosa ti hanno fatto? Cosa vuoi che facciamo?), offrirgli “buone” ragioni (innanzitutto perché lui é in grado di comprenderle) del perché questo sia accaduto, o addirittura rimuoverne le cause, lo tranquillizzerà.
  • Guidandolo nella respirazione, possiamo aiutarlo a diminuire la sua arrabbiatura, così che possa recuperare l’autocontrollo e calmarsi.
  • Sarà indispensabile sospendere ogni giudizio, chiedendogli di seguire il nostro ritmo respiratorio, sempre più lento e profondo, fino al rilassamento. Ci aiuterà portare la sua attenzione, attraverso il contatto della sua stessa mano sulla sua pancia, all’aria che vi entra ed esce, facendola muovere su e giù come un’onda. Questo tipo d’esercizio aiuta i bambini a ritrovare dolcemente uno stato di calma.
  • Invitare un bambino a mettersi in ascolto di sé, e a identificare le proprie sensazioni fisiche (tono alto, rigidità delle mani e della muscolatura, rossore al viso), lo aiuta a riconoscere le proprie reazioni rabbiose e a imparare a gestirle.
  • Quest’esercizio è importante, perché porta i bambini a riconoscere le emozioni che stanno provando; dando a queste un nome, imparano a distinguere quelle “buone” da quelle “cattive”.
  • Questi “esercizi” sono le pratiche che impariamo nel corso della nostra Formazione IN Counseling ed è quanto proponiamo, all’occorrenza, ai nostri clienti (adulti) nelle nostre sessioni di counseling.
  • Anche un disegno, magari un mandala, che, simbolicamente, rappresenti la rabbia che sta provando, può essere utile al bambino, per dare forma, contenuto e sentimento a ciò che sta provando; questo lo aiuta a rilassarsi, a scaricare le tensioni di cui è preda ed è sofferente e, quindi, lo aiuta a calmarsi.
  • Il bambino che vive in un clima di serenità e felicità, che percepisce la mamma come base sicura, un bambino amato, accolto, ascoltato, più facilmente instaurerà, fin dall’età prescolare, buoni legami con i coetanei.
  • Un bambino cresciuto in un ambiente “sano”, è sereno e felice, non è geloso e nemmeno possessivo, sa stare con gli altri, e nel gioco raramente ricorre ai capricci o ai litigi.
  • Un counselor deve saper dare amore e affetto al bambino, per trasmettergli sicurezza e fiducia, questo produrrà sentimenti di apertura, che faciliteranno il loro stare in relazione. Il bambino percepisce che il counselor è lì per ascoltarlo, guidarlo e accompagnarlo in un’esperienza che lo porterà a stare meglio.
  • La capacità di dare amore e tenerezza ai bambini (anche se figli propri) non è di tutti; spesso manca a chi ha avuto particolari deficit affettivi.
  • Un bambino i cui bisogni affettivi non sono opportunamente considerati, si sentirà non riconosciuto, non compreso, non accolto, non ascoltato e abbandonato.
  • Nella relazione con una madre anaffettiva, un bambino spesso reagisce invertendo ruoli: si prende lui cura della mamma e cerca di renderla felice; non potendoci riuscire, sviluppa scarsa autostima e insicurezza.
  • Una mamma che non sa dare amore è una mamma che si ama poco. Fare counseling con questa mamma vuol dire aiutarla a ricontattare se stessa, riconoscendo i propri bisogni e le proprie possibilità di soddisfarli.
  • “Nosci te ipsum”  (che traduce il greco γνῶϑι σεαυτόν, conosci te stesso) è una massima   religiosa scritta sul tempio di Apollo a Delfi. Il dio Apollo esorta gli uomini a conoscere le loro limitatezze e debolezze, invitandoli a imparare a conoscere se stessi in tutti i sensi.
  • Un counselor che lavora con bambini cresciuti con una madre anaffettiva, assente, distaccata e fredda, può aiutarli a compensare ciò che è loro mancato, organizzando attività specifiche, con loro, in cui loro stessi sono abbracciati e abbracciano, vengono baciati e baciano e, in generale, possano esprimere la loro affettività. Questo li aiuterà ad affrontare le loro paure e i loro sensi di colpa.
  • È molto importante educare i bambini al senso di responsabilità personale, ma bisogna fare attenzione a non “adultizzarli”, assegnando loro compiti non congrui al loro stato di crescita, come investirli di responsabilità genitoriali. Facilmente, questi bambini saranno adulti con relazioni interpersonali sbilanciate sul lato del dare, non avendo fatto buona esperienza del ricevere e della soddisfazione che questo produce; oppure offriranno il proprio “dare” con modi inadeguati, non avendo imparato a farlo, adeguatamente.
  • Se un adulto, adultizzato da bambino, si rivolgesse ad un counselor, nella relazione con questi potrebbe apprendere modalità adeguate di dare e ricevere, riproponendole nelle proprie relazioni.
  • Come counselor mi è capitato di lavorare con bambini adultizzati. Il mio compito principale è stato quello di lavorare sulle loro emozioni, facendole emergere, offrendo loro comprensione e riconoscimento, dando loro affetto, attraverso il contatto fisico, con abbracci e con carezze.
  • È fondamentale rassicurare un bambino in difficoltà; fargli comprendere che non ha colpa per quello che sta vivendo.
  • Spesso un bambino esprime le proprie difficoltà prendendosela con gli altri (in primis i propri pari) oppure somatizzando il proprio malessere (febbre, mal di pancia, ecc.).
  • Un’attività-gioco per sviluppare la capacità d’instaurare un rapporto intimo con l’altro e vivere un clima sereno, è quella di lavorare sul “ricevo-offro” contatto.

Ai bambini con cui lavoro, propongo attività di:

-contatto narrativo ( ti racconto una storia all’orecchio),

-contatto fisico semplice (tengo le mie mani sulle tue spalle),

– contatto fisico profondo (massaggio alla schiena e alla testa). 

Dopodiché faccio raccontare l’esperienza vissuta, per valorizzarne gli aspetti edificanti.

  • Il bambino, per imparare a camminare, si esercita instancabilmente, trovando sostegno nelle gambe delle sedie, dei tavoli e in tutto ciò che gli capita a tiro. Supera la frustrazione e la rabbia per tutto ciò che non riesce a fare, sperimentando la propria impazienza e delusione. Ogni successo lo ripaga e alimenta la sua fiducia di potercela fare a ottenere ciò che vuole. Questo accresce l’autostima, che gli sarà necessaria quando sarà più grande per far fronte alle sue difficoltà, e gli servirà, anche e molto, a imparare a orientarsi verso chi lo saprà apprezzare, senza per questo perdersi nel continuo bisogno della conferma altrui.
  • L’intolleranza alla frustrazione genera ansia e problemi di comportamento, ci impedisce di dar valore agli errori e limita così le nostre possibilità di crescita. Dietro alla frustrazione c’è la nostra paura di fallire, di non essere all’altezza, di essere sbagliati, di non essere accettati o apprezzati.
  • I bambini con queste insicurezze (ed anche gli adulti!) vanno educati al valore dell’errore, alla necessità di sbagliare, come leva dell’apprendimento, della crescita. Questo è l’obiettivo principale su cui lavorare quando facciamo counseling con bambini insicuri e timorosi di sbagliare; obiettivo che conseguiremo facendo riconoscere loro l’ansia e il senso di inadeguatezza, che provano, come stati d’animo normali, che possono imparare a gestire e a superare.
  • Secondo J. Pinel, il processo di neuro-sviluppo inizia col concepimento e prosegue nel periodo fetale, continuando nel periodo post-natale, fino all’età adulta.
  • I bambini vanno protetti dai danni neuropsicologici.
  • Con i bambini bisogna stare attenti ai castighi, alle minacce, alle parole che usiamo, perché possono ferirli, alimentare la loro paura di essere inadeguati e incapaci; dobbiamo considerare la possibilità che incolpandoli di cose che capitano a noi (magari del loro “farci arrabbiare”), possiamo far nascere in loro, e alimentare, dei sensi di colpa.
  • Un’attenzione particolare va rivolta al co-sleeping, dormire insieme. Un genitore che soddisfa il bisogno di attaccamento, di vicinanza e di sicurezza del suo bambino, ricevendolo nel suo letto, quando lo richiede, lo aiuterà a imparare a separarsi, all’occorrenza, e quindi a stare da solo, favorendo lo sviluppo della sua autonomia.
  • Assicurare la vicinanza al proprio bambino favorisce il desiderio d’indipendenza e sviluppa sicurezza interiore.
  • La lettura di fiabe, per le metafore che propone, è uno strumento molto utile ai bambini. Le fiabe attivano i sensi, permettono di farne esperienza in situazioni protette, non pericolose. Chi legge/racconta una fiaba ad un bambino, può accoglierne le reazioni emotive e aiutarlo a rielaborarle positivamente.
  • Le fiabe accompagnano il bambino alla conoscenza di sé; lo aiutano a contattare e a fare esperienza delle proprie emozioni, valori e gusti.
  • Le rappresentazioni fantastiche delle fiabe entusiasmano i bambini; per questo raccontargli fiabe è un buon mezzo per fargli conoscere il mondo e la vita, il loro essere e vivere in questo mondo.
  • Le espressioni degli adulti possono lasciare segni indelebili nella mente di un bambino, che da grande le ripescherà per affrontare situazioni simili, e allora saranno “cose” più o meno buone a seconda di quanto “buone” saranno state quelle espressioni.
  • Le ferite emotive subite durante l’infanzia possono ritrovarsi ancora aperte in età adulta, accompagnate da atteggiamenti mentali e comportamentali variamenti inadeguati e/o disfunzionali.
  • In questi casi, un counselor può aiutare l’adulto a prendersi cura del proprio “bambino interiore”, aiutandolo a scoprire e ad attivare, ora che è adulto, le proprie possibilità di:

            – fare scelte di vita produttive,

            – accettare gli accadimenti dolorosi della propria vita,

            – trovare il modo di fare qualcosa di diverso e più funzionale, nel presente, quando dovesse        ritrovarsi in situazioni simili a quelle in cui è stato ferito,

            – di meglio sfruttare le sue buone connessioni con ciò che la vita gli offre,

            – di creare modelli di vita produttivi e sani,

            – di imparare a perdonare e a lasciare andare, non rimanendo attaccato a ciò che lo ha fatto      soffrire.

  • Un bambino cresciuto come “cocco di mamma”, o di papà, potrebbe ritrovarsi da adulto a voler continuare a “beneficiare” di tale “identità”; facilmente quindi si rapporterà in modo seduttivo, in preda al bisogno di affascinare.
  • Un bambino super protetto, con genitori che si sostituiscono a lui per evitargli fatica e frustrazione, più facilmente crescerà incapace di prendere decisioni, sarà vittima del proprio senso d’inadeguatezza e della propria incapacità di svolgere bene il proprio lavoro.
  • Con questi bambini diventa indispensabile lavorare sulla gestione dei capricci, sulla fiducia, sulle capacità personali di gestione dei propri problemi.
  • Nel caso di separazione dei genitori, una mancata elaborazione della stessa da parte del bambino, allo stesso produrrà rabbia, paura, solitudine e angoscia; molto probabile che sviluppi approcci relazionali disfunzionali.

Un counselor accompagnerà un tale bambino, diventato adulto, a riconoscere le proprie emozioni e a farci migliori conti; questo gli permetterà di ritrovare fiducia in se stesso, di recuperare la necessaria autostima e le energie indispensabili per rimettersi in gioco, più adeguatamente, nelle proprie relazioni sociali e personali.

Se sei interessato al Counseling; se vuoi diventare un Counselor; se già lo sei e cerchi aggiornamento e/o supervisione professionale, CONTATTAMI.

0 Comments