Il counseling, come “architettura di pratiche”. Parte Seconda: OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE. PRESENZA.

Il counseling, come “architettura di pratiche”. Parte Seconda:

OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE. PRESENZA.

Abbiamo concluso il precedente capitolo, di questo “Manuale per la Formazione IN Counseling”, affermando che “il nostro modo di fare counseling non sarebbe possibile senza le “pratiche” dell’ OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE e della PRESENZA.

Intorno alla prima, quella dell’osservazione non giudicante, circola una certa quantità di malintesi, il più insulso è quello che dice che “noi counselor non giudichiamo”.

  • saper osservare il cliente, e quanto capita nella relazione di counseling, senza giudicarlo;
  • saper osservare, con uno sguardo e un atteggiamento che esclude il giudizio, ciò che, nella relazione di counseling, il cliente porta di se stesso e del suo mondo;
  • saper stare con il proprio e l’altrui sentire-pensare(giudicare)-agire, tenendo sospeso il giudicarlo e senza farsi influenzare dall’altrui giudizio;

tutto questo non impone, in alcun modo, al counselor, l’obbligo di non giudicare.

Insomma, non è affatto vero, ed è stupido pensarlo, che il fare counseling escluda la possibilità di giudicare.

Saper fare counseling non prevede l’obbligo di non giudicare, ma la capacità di scegliere di stare, quando necessita, con se stessi e con gli altri, in modalità relazionali che disattivano le influenze nefaste del giudizio.

Questo “saper stare” con se stessi e con l’altro, in modalità relazionali che disattivano le influenze nefaste del giudizio è uno degli aspetti, tra i più importanti, che individuano il counseling e la sua qualità.

Più precisamente, il saper stare in ascolto, come pratica ordinaria del proprio fare counseling, il rivolgersi innanzitutto al proprio “sentire”, in ogni circostanza saliente della relazione di counseling, con particolare riferimento ad ogni occasione  in cui il cliente e/o il counselor stesso si ritrovino alle prese con una qualche forma di giudizio, è l’aspetto che individua il saper far counseling e la sua qualità, non certo il “non giudicare”.

Il giudicare è un’attività mentale che si declina in molteplici funzioni, che, nell’esistenza umana, hanno la tendenza ad automatizzarsi.

Basta consultare un buon dizionario della lingua italiana, alla voce “Giudizio”, per apprendere come tale termine possa indicare:

  1. L’attribuzione di un oggetto a una categoria (oggettiva o soggettiva), ovvero un’opinione personale su tale oggetto.
  2. L’esito delle nostre attività di analisi, valutazione e scelta che ci permettono di classificare soggetti, cose e situazioni, di stabilire connessioni logiche e relazioni di causa-effetto, tra gli accadimenti, reali o immaginari.
  3. L’esito di ogni nostra riflessione sugli accadimenti che, in qualunque modo, ci riguardino, per ricondurli il più armonicamente possibile alle nostre esigenze, siano questi bisogni, desideri, volontà.
  4.  La formulazione sintetica dei contenuti e del valore di un’esperienza, che serve, anche, all’accrescimento del sapere.
  5. Uno status individuale e/o sociale: l’età del giudizio
  6. La qualità di un oggetto: il dente del giudizio
  7. Un cambiamento di condizione personale: mettere giudizio, ravvedersi
  8. Un verdetto tribunalesco: innocente / colpevole
  9. Un procedimento: essere sotto giudizio
  10. Un valore e/o un senso culturalmente, e mille volte emotivamente e sentimentalmente, determinato.

Insomma, non giudicare è impossibile e, in mille situazioni (e molte di queste in scena nelle relazioni di counseling) aver giudizio e buone capacità di esercitarlo è assolutamente necessario.

Ma noi sappiamo che giudicare può equivalere a chiudere il rubinetto delle idee, che avremmo potuto continuare a sviluppare, e quindi farci, su ciò che, ormai, abbiamo giudicato.

Noi sappiamo che al giudicare, facilmente, si correlano reazioni emotive e comportamentali fisse e ripetitive, che non muovono al cambiamento.

Giudicare può togliere ogni motivazione alla ricerca di novità e/o di cose nascoste, può uccidere il gusto dell’esplorazione di nuove possibilità, relativamente a ciò che, ormai, è passato in giudicato.

Per questa ragione, chi fa counseling, fa tre “cose” particolari:

  1. sta molto attento alle forme di giudizio e ai suoi contenuti, cui lui stesso ed il suo cliente ricorrono;
  2. le gestisce;
  3. agisce il proprio stare in relazione con modalità che prevengono e diminuiscono di gran lunga l’entrata in scena del giudizio e dei suoi perniciosi effetti, ovvero fa un uso consapevole delle proprie funzioni giudicanti.

Facciamo un esempio.

Viene da me un cliente. Ha un’aria dimessa, la voce bassa, sul volto ha dipinta la tristezza.

Individuare la sua aria dimessa, la sua voce bassa, la sua tristezza, sono un’operazione in sé e per sé giudicante: individuo dei segni  per un loro valore significante precostituito nella mia mente: per l’aria dimessa, un abbigliamento casuale e trasandato e lo sguardo costantemente rivolto verso il basso; per la voce bassa, un tono acustico sottile e tenue; per la tristezza del volto, la piega all’ingiù degli occhi e della bocca; che mi portano a classificare l’aria del mio cliente come “dimessa”, la sua voce come “bassa”, la sua faccia “triste”.

“Classificare” è un’operazione indiscutibilmente giudicante:

giudico “dimessa” l’aria del mio cliente, bassa la sua voce, triste la sua faccia.

Ma queste forme di giudizio posso trasformarle in “osservazione non giudicante” se le riconosco come giudizi e, invece di valorizzarle sul piano di qualsivoglia sviluppo deduttivo-associativo pseudo logico, le utilizzo come input per mettermi in ascolto, alla ricerca dell’effetto che mi fa lo stare con quell’aria dimessa del mio cliente, quella sua voce bassa e quella sua faccia triste.

Osservare senza giudicare è saper riconoscere, nel campo in cui rivolgiamo la nostra attenzione, oggetti, soggetti e accadimenti (ed è impossibile riuscirvi senza attivare una qualche forma di giudizio), stabilendo con essi una relazione che:

  1. escluda il giudicarli secondo criteri e logiche, precostituite, di causa-effetto (esempio: faccia triste – persona pessimista, oppure gli è successo qualcosa di brutto);
  2. sia strutturata sull’ascolto, l’accoglienza, il fare la spola (vedi capitolo precedente) tra ciò che ci ritroviamo a pensare e a sentire, facendo particolare attenzione al riconoscere ogni forma di giudizio, gestendola opportunamente, cioè riposizionandola sul piano del sentire (che vuol dire interrogandosi sul come ci fa sentire quel giudicare, nostro e/o altrui), affinché da questo possano muoversi istanze mentali di maggior valore e migliore funzionamento.

Insomma, il giudizio che aborriamo è quello sulle persone ed è quello di ragionare per relazioni di causa-effetto preordinate-classificate.

Giudicare è probabilmente la più abusata tra le attività mentali; è quella che più si presta alla sclerotizzazione nevrotica, che trova nel pregiudizio la sua forma più perniciosa.

Certe forme di giudizio (i pregiudizi, in generale, ed ogni giudizio sulle persone, in particolare),  quando compaiono in una relazione interpersonale, ne ostacolano le possibilità di  sviluppo; per questo, nella relazione di counseling, che è un’esperienza organizzata in funzione degli sviluppi processuali che è in grado di portare avanti, certe forme di giudizio sono assolutamente da escludersi.

Il principio che un counselor non giudica andrebbe, almeno, riformulato nei seguenti termini:

  1. per un counselor viene prima il sentire;
  2. un counselor sa riconoscere le forme di giudizio e sa come gestirle;
  3. un counselor sa quanto sia pericoloso il giudicare, in ogni forma di relazione interpersonale, e sa anche quanto sia ineludibile, per questo si è formato su “pratiche”, il cui ricorso ha come effetto quello di diminuire di molto l’affacciarsi del giudizio e, quando questo accade, ha come effetto il permettere una sua opportuna gestione;
  4. un counselor, quindi, più di “non poter giudicare”, sa “cosa farsene del giudizio”, cioè sa “come gestirlo”;
  5. il counselor è una persona che vive una vita sociale complessa e articolata come tutti gli esseri umani;
  6. in mille situazioni relazionali, saper giudicare bene e in fretta, anche le persone (esempio: con chi abbiamo a che fare e/o a cosa possano servire certi comportamenti e da cosa dipendano certi pensieri), è una capacità importante, che ci aiuta a meglio affrontare situazioni complicate;
  7. nelle proprie relazioni di counseling, un counselor esclude, assolutamente, le forme di giudizio riguardanti le persone;
  8. relativamente al campo esistenziale che il cliente, con la propria narrazione, propone, e al setting in cui si svolge la relazione stessa di counseling, il counselor opera in corrispondenza del proprio esame e giudizio su ogni elemento e circostanza cui riconosce rilevanza significativa.
  9. il counselor, nel proprio modo di stare con se stesso ed in relazione con i propri clienti, per scongiurare le influenze nefaste del giudicare, fa affidamento sul proprio saper ascoltare, accogliere, fare la spola e dare i propri feedback (vedi cap. precedente).

Come questo possa avvenire, lo presentiamo con un

ESEMPIO:

Se ricevo un cliente che ha indosso una felpa visibilmente lisa, accorgermene e rilevarlo, tra me e me, è un’attività di “osservazione non giudicante” se non do corso a nessuna, relativa, deduzione giudicante del genere: “questa persona veste in modo trasandato, non si prende cura di sé”, oppure: “sicuramente non può permettersi una felpa nuova”.

È un’attività di “osservazione non giudicante” se il fatto, una volta rilevato, viene assunto come “significante” di “significati” non ancora dati, che  potranno rivelarsi interessanti solo se matureranno come frutto dei processi di consapevolezza il cui sviluppo sto facilitando con il mio fare counseling.

È un’attività di “osservazione non giudicante”se, accorgendomi del mio giudizio, rivolgo la mia attenzione su ciò che sto sentendo, in collegamento con il fatto che il mio cliente la stia indossando, qui, con me, invece di “giudicare” il mio stesso cliente, per il fatto di indossare una maglia lisa.

Per comprendere quanto sto affermando proviamo a seguire due possibili, differenti, processi, che potrebbero svilupparsi  in funzione del mio giudicare o meno.

GIUDIZIO

  1. Vedo la felpa lisa del cliente.
  2. Giudico il mio cliente povero, impossibilitato a comprarsi una felpa nuova
  3. Comincio a preoccuparmi del fatto che non potrà permettersi di pagarmi
  4. Mi distraggo e demotivo, perdo il contatto con il mio cliente ed ogni possibilità che, con lo stesso, possa svilupparsi qualcosa di buono.

OSSERVAZIONE NON GIUDICANTE

  1. Vedo la felpa lisa del cliente, ma la vedo che sono in ascolto.
  2. Il riconoscerla lisa è già una forma di giudizio, che potrà rivelarsi utile e funzionale, se ben gestita.
  3. Il mio osservare non giudicante, sostenuto dal mio stare in ascolto (vedi cap. precedente), mi fa vedere quello che c’è (la felpa lisa), ma, prima di farmi partire per tangenti mentali giudicanti, mi fa riconoscere quello che provo e cioè, ad esempio, curiosità per il senso che il portare una felpa lisa possa avere per il mio cliente: gli è particolarmente affezionato? È il capo d’abbigliamento che lo fa sentire più comodo? Preferisce la comodità personale e non é interessato al giudizio altrui? Ha perso interesse per il proprio abbigliamento, perché alle prese con istanze esistenziali per lui ben più importanti? (tanto per fare degli esempi!).
  4. Rimango quindi in ascolto; fiducioso del fatto che se la felpa lisa del cliente dovesse avere un qualche significato importante, o utile al lavoro di consapevolezza che stiamo svolgendo, questo emergerà nel corso del nostro stare nella nostra relazione di counseling.
  5. Non traggo conclusioni, lascio aperto il processo, pronto a beneficiare di tutto ciò che il suo fluire potrà portare di buono.

Ricapitolando: ci sono tre aspetti particolarmente importanti di cui tenere conto nel valutare il “valore” del giudicare:

  1. giudicare funziona come stop del fluire e svilupparsi di idee, pensieri e sentimenti; cristallizza il nostro “sentire” in emozioni e sentimenti scontati e ripetitivi; dà immancabilmente il via a comportamenti reattivi, anche loro scontati e ripetitivi, difficilmente sostiene sviluppi di apertura e cambiamento. Per questa ragione è così messo all’indice nel counseling, che è una relazione di tipo processuale, che, promuovendo il cambiamento, necessita di prospettive aperte, che rendano possibile la sperimentazione di nuovi stati emotivi, nuovi atteggiamenti mentali e nuove modalità comportamentali. Per questa ragione, chi fa la Formazione IN Counseling, invece di allenarsi a “non giudicare” (che è un’attività impossibile: non possiamo allenarci a “non fare” qualcosa, possiamo allenarci a “fare qualcosa”), si allena in specifiche e particolari pratiche, il cui esercizio riduce significativamente le influenze nefaste del giudicare.
  2. Ci sono forme di giudizio che sono utili e funzionali; sono quei giudizi che, classificando cose ed oggetti, ci aiutano a gestirli meglio (la classificazione è, insieme a tante altre, una forma di giudizio). Esempio: vedere lo sporco della mia camicia e giudicarla sporca mi serve a decidere quando metterla a lavare. Altro esempio: giudicare pericoloso il muovermi da solo, nottetempo, in un certo quartiere della mia città, ed agire di conseguenza, può salvarmi la vita. Altro esempio: in una sessione di counseling, giudicare inopportuno, in una determinata circostanza, rispondere ad una domanda del cliente, che giudichiamo manipolante, ci aiuta a trovare buoni e funzionali modi di gestire quella sua domanda, affinché il nostro stare con lui sostenga lo sviluppo di adeguati processi di consapevolezza.
  3. E  ci sono forme di giudizio che sono assolutamente dannose e disfunzionali; sono i giudizi riferiti alla persona. Sono giudizi che ci pongono in categorie dell’essere dalle quali non possiamo uscire per giocarci le nostre possibilità di cambiamento.

Sono giudizi che immobilizzano, chi li emette, in posizioni personali e dinamiche interpersonali che ostacolano ogni possibile evoluzione, cambiamento, miglioramento.

Il giudizio, però, è l’atto che mille volte ci serve per prendere una decisione sul da farsi, per noi stessi, con noi stessi, con gli altri.

Quando facciamo counseling, non giudichiamo mai il cliente, perché non tocca a noi decidere nulla su quello che lui potrà pensare e fare di se stesso e per se stesso.

A noi tocca aiutarlo a sviluppare i propri stati di consapevolezza ed ogni giudizio sulla sua persona non farà altro che bloccarli e/o fuorviarli.

A noi tocca accompagnarlo, anche, ad arrivare a formulare propri giudizi su se stesso, e sulle proprie possibilità di buona gestione personale delle problematiche esistenziali che sta vivendo, in grado di aiutarlo a meglio affrontarle e, possibilmente, a risolverle.

Forse non servirà al cliente arrivare a giudicarsi capace di affrontare le proprie difficoltà?!

Forse non servirà al cliente arrivare a giudicarle risolvibili?!

E quando risolverle non fosse possibile, forse non servirà al cliente giudicare possibile trovare un qualche modo che potrebbe permettergli di accettarle e imparare a conviverci?!

Anche a questi risultati si arriva, facendo counseling.

Facendo counseling arriviamo a scoprire che è il cosa giudichiamo ed il modo che ci porta a mettere a fuoco e a formulare i nostri giudizi che conta, non tanto il diktac del non giudicare.

Giudicare il valore delle cose (oggetti, sentimenti, pensieri, azioni, comportamenti) è indispensabile alla nostra esistenza, quindi anche al nostro fare counseling.

Giudicare le persone è controproducente, quando facciamo counseling, perché il counseling trae la propria funzionalità dal fluire di processi che vengono bloccati quando le persone vengono giudicate.

Comunque sia, il vero “diktat” che pone il counseling non è il “non giudicare”, ma stare con se stessi, e con l’altro, concentrati sul proprio sentire e su tutto ciò che si affaccia alla propria coscienza e ai propri sensi.

Tutta questa materia viene innanzitutto “osservata” dal counselor (alias “contemplata”), alla ricerca del riconoscimento di ciò che potrà rilevarsi potenzialmente utile allo sviluppo dei processi di consapevolezza cui stiamo partecipando, insieme al nostro cliente, nella nostra relazione di counseling.

Come e quanto questa potenziale utilità si svilupperà nel corso della nostra relazione di counseling, non è dato saperlo, fino a quando questo non dovesse accadere, perché dipenderà dagli sviluppi processuali della nostra relazione di counseling.

Ma per accadere avrà certamente avuto bisogno del nostro saper “osservare in modo non giudicante”.

Osservare senza giudicare vuol dire assaporare gli effetti sensoriali del mettere a fuoco, con tutti i nostri organi di senso (dalla vista all’udito, dal tatto  all’udito, dall’intero nostro sentire al complesso sistema delle nostre facoltà mentali), tutto ciò che è da noi stessi percepibile, nel qui e ora della nostra esistenza, nel campo e nelle condizioni in cui la stiamo vivendo.

Da tale messa a fuoco, immancabilmente, partiranno forme di giudizio, funzionali ai processi di consapevolezza che sosteniamo col nostro fare counseling.

La prima è quella del nostro individuare e mettere da parte, ciò che riconosciamo come potenzialmente utile al nostro fare counseling (cioè in grado di sostenere buoni sviluppi di consapevolezza, in noi e nel nostro cliente).

Esempio: il mio cliente parla di sé in terza persona; me ne accorgo perché presto attenzione alle, alias osservo le, forme della sua comunicazione; “giudico” la cosa interessante e confronto il cliente sulla stessa, ma lo faccio stando in ascolto, accogliendone gli effetti e facendo tra questi la spola.

Sarà quindi il mio saper “osservare senza giudicare”, quindi il mio stare in ascolto, accogliendo e facendo la spola (nei termini già proposti, sull’accoglienza e sulla “spola”, nel capitolo precedente) tra ciò che nella nostra relazione di counseling va configurandosi (quindi anche ogni stessa forma di giudizio), che alimenterà le mie intuizioni, e quelle del mio cliente, circa il come muoversi per meglio fronteggiare le problematiche rispetto alle quali il mio cliente stesso mi sta chiedendo aiuto.

Il fare counseling è un’attività la cui “logica” è quella di appoggiarsi sul sentire.

Il lavoro di consapevolezza che un counselor porta avanti con i propri clienti mira a valorizzare le potenzialità di cui ciascuno di loro dispone per meglio affrontare le difficoltà esistenziali che stanno vivendo.

Concludendo, aiutiamo i nostri clienti a far migliore uso dei loro sentimenti, dei loro comportamenti e dei loro pensieri, aiutandoli a metterli meglio a fuoco e a scegliere di intervenire su di questi per produrre i miglioramenti che stanno cercando; fiduciosi che questo sia sempre possibile!

La nostra “logica” è che “non è indifferente da dove partiamo; per questo scegliamo di partire dal sentire” e di usare il “sentire” come funzione filtrante di ogni giudizio e/o forma di pensiero.

Il giudizio è un’attività che muove logiche consequenziali preordinate, che difficilmente riescono a promuovere forme di benessere (esempio: sei pigro, non farai mai niente di buono).

Per questo, nella relazione di counseling, ogni giudizio rivolto alla persona con cui interagiamo è da “giudicarsi” inopportuno e disfunzionale.

Val la pena sottolineare, però, che stiamo parlando dell’operato del counselor che fa counseling; non del counselor in ogni propria circostanza esistenziale: anche un counselor può riconoscere uno stronzo (e come farlo senza giudicare?!) e corrispondervi conseguentemente!

Il giudicare una persona è “inopportuno e disfunzionale” in una relazione di counseling, che funziona grazie alla qualità di dinamiche interattive che quel giudicare preclude.

Ma il giudicare una persona può essere, invece, “opportuno e funzionale” in altri contesti esistenziali, soprattutto quei casi in cui precludere certe dinamiche interattive potrebbe essere fondamentale!

Insomma, il giudizio è una funzione mentale particolarmente potente; è un’istanza capace di muovere stati emotivi, forme di pensiero e comportamenti, che, una volta mossi, difficilmente potranno essere fermati e/o rielaborati, diminuendo, così, fortemente, ogni possibilità di cambiamento, che dovesse presentarsi necessaria.

Vediamo quindi, a mo’ di esempio, alcuni casi in cui il giudicare è particolarmente utile, anche in una relazione di counseling:

  1. quando riusciamo a mettere a fuoco il rapporto di causa-effetto tra una certa abitudine comportamentale del nostro cliente e le relative risultanze sociali (tipo: le dinamiche di esclusione sociale che vive in relazione alla sua tendenza a non esprimere i propri pensieri e le proprie volontà, ma ad arrabbiarsi quando non viene fatto ciò che lui stesso vorrebbe), chiedere al cliente: “in termini di utilità personale/sociale, come giudichi questo tuo comportamento?!” potrebbe essere un richiamo alla funzione giudicante capace di promuovere sviluppi di consapevolezza particolarmente interessanti;
  2. quando consideriamo gli effetti e le interazioni di determinate azioni, pensieri e sentimenti, ricercandone migliori gestioni;
  3. quando rivolgiamo l’attenzione alle nostre scelte in materia di rapporti sociali ed affettivi (esempio: giudichiamo preferibile stringere rapporti interpersonali con persone che ci trattano bene e/o in grado di migliorare le condizioni della nostra esistenza).

Certo è che il giudizio che aborriamo è sicuramente il pregiudizio, perché è un’istanza che fagocita il nostro modo di vivere, marchiando tristemente l’intera nostra esistenza.

In altre parole: c’è una bella differenza tra un giudicare che si definisce “in fieri”, cioè come risultato di un processo che attraversa le proprie possibilità di sviluppo, un giudicare che si propone come frutto dei processi di consapevolezza che l’hanno fatto fiorire e maturare, e un  giudicare come messa in atto di automatismi preordinati, psicologici e/o culturalmente determinati, cui corrispondono, invariabilmente, le stesse reazioni automatiche di sentimento, pensieri e comportamenti.

Per questa ragione noi counselor partiamo dal “sentire”.

Ci mettiamo in ascolto per riconoscere ciò che proviamo e, grazie a questo, avere una migliore percezione dei nostri bisogni, delle nostre priorità, delle nostre preferenze, del nostro contatto con l’ambiente.

Da tale migliore percezione traiamo input ed ispirazioni in grado di meglio orientare i nostri pensieri e le nostre azioni, migliorandone gli esiti relativi al nostro e all’altrui benessere.

 “Viene prima il sentire” è la nostra parola d’ordine, perché sappiamo quanto non sia affatto indifferente da dove partiamo, per arrivare dove vogliamo arrivare, vale a dire a quegli stati di consapevolezza che ci permetteranno di agire al meglio delle nostre possibilità, facendoci così vivere il meglio possibile, date le condizioni storico-sociali della nostra esistenza.

PRESENZA

L’ultima “pratica” che affrontiamo, in questa parte del “Manuale per la Formazione IN Counseling” dedicata al counseling come “architettura di pratiche”, è quella della PRESENZA.

Nel nostro fare counseling, e prima ancora nella nostra Formazione IN Counseling, ogni nostra pratica si fonda sull’attenzione verso noi stessi, e a noi stessi vuole portarci, utilizzando i nostri sensi per renderci consapevoli di noi stessi nella relazione con l’altro. In particolare, con le nostre pratiche puntiamo a riconoscere i nostri stati mentali, soprattutto quelli di cui subiamo, inconsapevolmente, le influenze negative; da tali influenze vogliamo liberarci, e aiutare i nostri clienti a fare altrettanto, per imparare a scegliere responsabilmente cosa e come fare per meglio affrontare le difficoltà esistenziali in cui ci dibattiamo, riorientando al meglio l’intera nostra vita.

Se, come abbiamo già scritto, osservare senza giudicare vuol dire assaporare gli effetti sensoriali del mettere a fuoco, con tutti i nostri organi di senso (dalla vista all’udito, dal tatto  all’udito, dall’intero nostro sentire al complesso sistema delle nostre facoltà mentali), tutto ciò che è da noi stessi percepibile, nel qui e ora della nostra esistenza, nel campo e nelle condizioni in cui la stiamo vivendo, la pratica della PRESENZA è tutto ciò che facciamo per riuscire non solo ad osservare senza giudicare, è, soprattutto, ciò che facciamo per riuscire a mantenere un contatto consapevole, con noi stessi, con l’altro, con l’ambiente.

Più volte, in questo manuale, si è parlato di consapevolezza come quello stato dell’essere in cui abbiamo buona coscienza di ciò che sentiamo, pensiamo ed agiamo e di come tutto ciò si correli con le condizioni ambientali, con particolare riferimento a ciò che sentono, pensano e fanno le persone con cui stiamo interagendo.

Questo stato di consapevolezza è una risultante del modo in cui contattiamo noi stessi e tutto ciò con cui entriamo in relazione.

Questo stato di consapevolezza è una funzione della nostra PRESENZA, cioè del modo in cui stiamo con noi stessi, con gli altri, con l’intero ambiente.

Il nostro modo di essere presenti, quando facciamo counseling, riguarda il nostro ascoltare e accogliere ciò che, ascoltando, sentiamo; riguarda i nostri livelli di attenzione, di curiosità e di interesse per quello che sta accadendo, in noi stessi, nell’altro, nella stessa relazione di counseling, su qualsivoglia piano del sentire, pensare e agire questo avvenga.

Insomma la pratica della presenza è quella di “tenere insieme” tutte le pratiche di base del counseling, analizzate in questi ultimi due capitoli:

  1. ascolto
  2. accoglienza
  3. spola
  4. feedback
  5. osservazione non giudicante

“Tenere insieme” queste pratiche vuol dire fare pratica di presenza, cioè “esserci” lì dove il nostro fare counseling ci tiene.

“Tenere  insieme” queste pratiche è la pratica che determina il miglior fluire possibile dei processi di consapevolezza su cui basiamo il nostro fare counseling ed è ciò che, in ultima istanza, sostiene i nostri stati di consapevolezza.

Abbiamo un’idea di consapevolezza come quello stato personale che determina e, contestualmente, è determinato da una congrua e funzionale integrazione del nostro “sentire”, “pensare” ed “agire”.

Qui aggiungiamo che ogni nostro stato di consapevolezza è una funzione diretta del nostro essere “attivamente presenti” (cioè adeguatamente e funzionalmente in contatto con quanto stiamo sentendo, pensando ed agendo) nelle circostanze della nostra esistenza che lo richiedono, per soddisfare un nostro bisogno e/o per aiutare al meglio chi, da solo, non riesce a soddisfare i propri e, per questo, ci chiede aiuto.

Avere una presenza attenta, consapevole e interattiva con i nostri clienti (cioè “esserci” nella relazione, stare dentro la relazione, in contatto empatico col cliente; diversamente da quanto fanno altri professionisti della relazione d’aiuto, che considerano il proprio coinvolgimento umano, nella relazione con i propri pazienti, un’interferenza, un fattore di disordine, di mancanza di controllo e di verificabilità scientifica) è ciò che caratterizza il nostro saper fare counseling.

Sulle qualità di tale presenza altro ancora scriviamo nel prossimo capitolo 3.4

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